Incontro con il Comandante Ultimo_di Emilia Filocamo
Il Colonnello Ultimo indossa pantaloni cargo, una giacca scura, sotto una t shirt in tinta. Il parcheggio dell’Auditorium Niemeyer, è un ventre di manovre e poche auto, compresa quella della scorta; i rumori sono ovattati, una sordina invisibile addolcisce tutto. Non è certo una Chiesa quel parcheggio, ma c’è una ritualità quasi sacra, e le corsie, budelli dove le auto vanno incanalate con ordine, oggi sono navate di cemento ed arrivi e gli scarichi dei pochi motori ancora in fase di rimbrotto, un incenso laico. Nulla è più piacevole del trabocco di sole che si intuisce all’esterno, in una mattina che è fresca e primavera, è nube e sta migliorando, con la Costa tutta disinvolta e sguainata a favor di mondo. Il Colonnello sfila fuori dal sedile dell’auto con un movimento veloce e sicuro che avrà ripetuto chissà quante altre volte, circondato dall’attenzione chirurgica dei suoi ragazzi: giovani, di poche parole, immensi quando poi provi a comprenderne sacrifici e scelte. Destino e famiglia.
Quando gli stringo la mano, tutto è catalizzato dal suo sguardo che sporge dalla sciarpa che gli copre il viso come se si affacciasse da una balaustra da cui può spiare il mondo senza esserne invaso.
Ultimo si porta addosso un ossimoro immenso: quel nome vorrebbe costringerlo in un angolo, insieme a ciò che arriva alla fine, dopo, in ritardo, e che cozza, e Dio solo sa quanto, con tutto quello che è, con la forza ed il coraggio che lo caratterizzano.
Deve avere un rapporto privilegiato con il cielo, il Colonnello Ultimo. Una confidenza tutta sua, un linguaggio speciale. Forse un codice. Perché al suo arrivo a Ravello, il primo pensiero è quello di incontrare le suore del monastero delle Clarisse, nel gomito roccia e infinito di Ravello, una guglia di campane e preghiera, un nido bianco e croci che solletica Dio e ci benedice, forse nel posto più impensabile in cui si penserebbe di trovare un eroe. Perché Ultimo è questo. Agli eroi solitamente spettano podi, spettano la folla e l’acclamazione, la fama. Invece Ultimo, ancora con un ossimoro, un contrasto perenne, va verso il silenzio, gli umili, le strettoie delle vie e dei suoni, dove forse la cosa più eclatante che potrà sentire saranno la levata di un merlo o il biascicato tentativo italiano di qualche turista straniero. Si, ha un rapporto privilegiato con il cielo: sono con lui i rapaci e i bambini, le creature che più di tutti sanno di infinto, creature fiere e sincere, ali e innocenza, virata e limpidezza, precisione e verità.
Dietro quelle pupille grandezza ed umiltà, c’è la chiave di un rebus immenso, la soluzione del rompicapo più feroce: ci sono celle, processi, dolore, pianti, sorelle, madri, auto di servizio, scorte che non torneranno a casa, bande rosse ed alamari, il berretto su una bara, come la vela di una imbarcazione che non mangerà più vento, asfalto crepato dal rigurgito di un enorme verme maledetto che gli ha contorto le viscere. Ci sono sangue e i patti di una terra dove magari significa anche, una meraviglia addolorata di mandorli e segreti, campagna e orli di mare irripetibili, ci sono i cortei e giovani che si tengono per mano, le vie di Palermo e forse quelle della terra in cui Ultimo è stato bambino. Dietro quegli occhi stanno le pozioni che hanno sciolto il peggiore degli incantesimi, la più perfida delle maledizioni. Non so quanto abbia avuto paura, se l’abbia mai avuta: quando cammina ha un piglio dritto, nerboruto, ossuto e nervoso che si oppone, ancora una volta in perenne contrasto, quando, morbidamente, come se le conoscesse da sempre, abbraccia altre creature vicine al cielo: i frati e i parroci intervenuti all’Auditorium Niemeyer. Non ho mai incontrato un eroe, se non nelle storie e nei romanzi, nei film e nelle ricostruzioni più o meno fedeli. Oggi però conosco gli occhi di un eroe, e sono quelli dell’uomo che ci ha attraversati in silenzio, e poi è diventato grande nel ventre dell’Auditorium, laddove da sempre tuonano gli ensemble e i nomi copertina, dove i piedi si contorcono sulle punte e regalano balzi ed il budello degli archi trema sulle corde e partorisce ouverture ed assoli. Ma oggi l’Auditorium è di Ultimo e del suo sacrifico.
Dei suoi occhi mi porterò dentro tutto quello che sanno: l’alzabandiera e le operazioni, la paura e la vittoria, il falco ed il gioco di un bambino. Perché è tutto in quello sguardo che ha cambiato la nostra storia: costretto a guardare il mondo a metà, quel mondo di cui conosce catrame e paradiso, e di cui continua a dragare il nodo scuro per insegnarci a non smettere il sogno.
- Dalla nostra rivista IlCagliaritano