Stefano Pontillo, gli occhi e lo sguardo di RAI3_di Bruno Merella
Nei giorni scorsi ci ha lasciato, a Cagliari, Stefano Pontillo. Il giorno di Pasqua si era spento nella sua Orgosolo, Peppe Muscau. In questo terribile 2020 RAI-Sardegna ha perso due pilastri della allora neonata Terza Rete ed io due carissimi amici e stimati compagni di lavoro. Diversi ma al tempo stesso perfettamente legati in uno stretto rapporto di collaborazione, formavano con me una delle due troupe del telegiornale con sede nella redazione staccata di Sassari. Pontillo era l’operatore di ripresa, Muscau lo specializzato con funzioni di assistente. Peppe era il saggio patriarca barbaricino dal passato avventuroso, Stefano un professionista sardo-campano sempre misurato nei modi, nemico della maldicenza, un vero signore. Nel suo lavoro era il Maestro. Nessuno in Sardegna poteva stargli vicino. Formato alla grande scuola del cinema e dei cinegiornali, faceva parte di quell’aristocrazia che esprimeva il meglio con la cinepresa, la mitica Arriflex, una macchina che fissava le immagini sulla pellicola. L’elettronica non esisteva e l’operatore poteva contare soltanto su capacità e sensibilità. Pontillo ne aveva da vendere. Faceva parte dell’organico della redazione di Sassari negli anni che precedettero la nascita della terza rete. Assieme al giornalista Sergio Calvi attraversò quel turbolento periodo in cui la Sardegna alimentava le cronache soprattutto con continui sequestri di persona e omicidi.
La pellicola impressionata era subito spedita per “fuorisacco” postale a Roma per lo sviluppo e il montaggio con la moviola. Le “dirette” erano possibili soltanto da studio o da postazioni esterne che mobilitavano carovane di automezzi. Le telecamere di allora avevano la dimensione di piccoli armadi.
Nel dicembre del 1979, la terza rete della Rai rese operative nelle sedi regionali le “ troupe leggere” e, archiviata la cinepresa Arriflex, sulle spalle di Pontillo si posò la telecamera RCA di produzione americana. Con un’antidiluviana tecnologia “a tubi” ed una struttura interamente metallica, arrivava a pesare dieci chili.
Quando lo conobbi Pontillo era al lavoro con la sua “croce”. Il Maestro faceva scuola ai colleghi operatori, ma distribuiva suggerimenti e correggeva errori ai giornalisti che dalla carta stampata erano passati, impreparati, alla gestione delle immagini. Non aveva mai atteggiamenti da professore in cattedra ma offriva con amicizia pillole di saggezza professionale. Fra le sue virtù era compresa la freddezza di fronte alle emergenze e addirittura a situazioni che mettevano in pericolo l’incolumità personale. In quei momenti l’uomo spariva, sostituito dal professionista. Incredibilmente, nei giorni successivi, non evocava in termini enfatici l’esperienza drammatica. Era archiviata nella memoria e nell’agenda personale. Le sue schede sulle riprese degli anni in cui girava con la cinepresa per il Tg 1 hanno permesso di ricostruire anni di cronache della Sardegna attraverso le pellicole conservate nella Teca Centrale della Rai, a Roma.
Fra le mille avventure vissute assieme, ne voglio raccontare due.
Nel febbraio del 1983, seguivamo nel tribunale di Tempio il processo per il sequestro di Fabrizio De Andrè e di Dori Ghezzi. L’aula era affollata fino all’inverosimile. Io ero seduto vicinissimo ai due cantanti, Pontillo e Muscau avevano un’ottima postazione per le riprese. Nel primo pomeriggio un capitano dei carabinieri si fece largo e a bassa voce m’informò che in una cava di granito vicino a Bassacutena, in un incidente sul lavoro aveva perso la vita un operaio, un altro era imprigionato con le gambe schiacciate sotto un enorme masso e per salvarlo era necessario amputargliele. Immediatamente lasciammo il Tribunale e corremmo a Bassacutena. Il sole era già basso sull’orizzonte. Quando arrivammo nella cava, il chirurgo aveva terminato l’intervento di emergenza e il povero operaio era già su un’ambulanza diretta all’ospedale. Ci si presentò una scena da far paura. Il grande masso squadrato che i cavatori avevano estratto dalla parete si era rovesciato prima del tempo, quando ancora gli operai stavano ultimando la stesura del letto di sabbia che doveva attutire la caduta. Il ribaltamento del gigantesco dado di granito aveva creato, a fianco, una catasta di grandi massi.
Le fotoelettriche erano accese e illuminavano a giorno il cantiere. I vigili del fuoco, infilandosi sotto la frana, avevano raggiunto il cadavere dell’operaio travolto ed avevano accertato che il recupero era possibile rimuovendo la sabbia con le mani. Sotto il cumulo si erano formate delle piccole grotte e con po’ di acrobazie potevano trovare spazio quattro persone. Il problema era l’’illuminazione. Vigili e carabinieri non avevano torce potenti. A quel punto offrii la nostra collaborazione perché avevamo in dotazione due proiettori portatili alimentati da grandi batterie. Ottenuta senza problemi la disponibilità di Pontillo, chiesi e ottenni di poter riprendere l’operazione. Raggiungemmo la salma e due vigili si misero al lavoro. Io manovravo un proiettore e Stefano girava le immagini con grandissima difficoltà perché non riusciva a trovare lo spazio adeguato per la telecamera. Negli stessi momenti in una cava vicina il capocantiere decise di dare prova del pieno rispetto delle norme che prescrivono il brillamento dell’esplosivo avanzato al termine della giornata di lavoro. L’esplosione provocò un potente spostamento d’aria che fece tremare i massi accatastati sulle nostre teste. Fummo investiti da polvere e detriti e per alcuni attimi pensammo che era giunta la fine. Non seguì alcun assestamento ma immediatamente ritornammo all’esterno. Muscau ci abbracciò. Più tardi ci disse che eravamo pallidi come cadaveri. Noi scherzammo, sostenendo che era il colore della polvere. L’incidente fu citato da tutti i giornali in margine alla cronaca del processo per il sequestro De Andrè.
Dopo qualche anno Pontillo realizzò un memorabile capolavoro durante un altro drammatico servizio. Nella tarda mattina di una ventosa domenica di inizio primavera ero in redazione anche se non ero in servizio e risposi per caso a una telefonata da Roma. Un ufficiale pilota di uno dei grandi elicotteri dell’Aeronautica militare specializzati in operazioni di salvataggio, comunicò che stava per decollare da Ciampino alla volta dell’aeroporto di Alghero. Un mercantile battente bandiera liberiana carico di auto nuove aveva lanciato l’SOS da una posizione 30 miglia al largo di capo Caccia. La nave era nuovissima, aveva appena sei mesi di vita. Andava alla deriva nel mare in burrasca dopo che un’ avaria aveva bloccato le macchine. A bordo il comandante greco, con la giovane moglie e la figlioletta di appena un anno, e 18 uomini di equipaggio.
Il maggiore Mereu mi disse che era originario di Sassari e offrì di ospitarmi a bordo dell’elicottero assieme a un operatore. Nel giro di un’ora Pontillo, Muscau ed io raggiungemmo l’aeroporto militare. Sulla pista era già atterrato l’elicottero. Apprendemmo che l’operazione di salvataggio tardava a partire perché il comandante della nave non riuscendo a mettersi in contatto con l’armatore non trasmetteva la posizione precisa. Il maggiore Mereu la ottenne soltanto dopo aver inviato un ultimatum frutto del calcolo delle poche ore di luce rimaste. Partimmo e in 40 minuti l’elicottero raggiunse la verticale della nave che sbandava paurosamente. L’equipaggio era raccolto sull’ala di plancia sinistra, a riparo dal vento. Il portello dell’elicottero fu spalancato e sul vuoto si affacciarono l’addetto al verricello e lo specializzato che doveva calarsi sulla nave per raccogliere i naufraghi, uno alla volta. Non c’erano cinture di sicurezza per noi e Pontillo si avvicinò ugualmente alla piccola gru precariamente assicurato da me. Con una mano stringevo un maniglione e con l’altra la cintura dei pantaloni di Stefano. Erano momenti di grandissima tensione. Mereu decise di salvare per prima la bambinetta ma sorse un problema. Come portarla su ? Infine si decise di richiuderla nel borsone che conteneva una tuta da sub. Lo specializzato lo vuotò, si mise a tracolla i maniglioni e si calò sulla nave. Furono momenti interminabili, la nave sbandava e l’elicottero manteneva la posizione a fatica. Infine l’ok. Risalivano.
Pontillo dimenticò la paura e si sporse, terrorizzandomi. Riuscì a inquadrare il soccorritore che dondolava nel vuoto col borsone legato al collo. Non fermò mai la ripresa in un magnifico piano-sequenza da manuale del cinema. Il rombo del rotore impediva il dialogo, le oscillazioni erano paurose, il vento contribuiva a rendere precario l’equilibrio. In questo caos arrivò a bordo il soccorritore e immediatamente fu aperta la chiusura lampo del borsone. Subito emerse una testolina bionda con uno smagliante sorriso, Una visione magica che incantò milioni di telespettatori di tutti i telegiornali. Dalla direzione, da Roma, ci chiamarono per farci i complimenti.
Passarono gli anni e più volte, soprattutto nei momenti difficili, rievocammo quel sorriso, sempre vivo nelle nebbie dei ricordi.
Grazie Stefano per avercelo regalato.
Desidero ringraziare Giorgio Ariu e Bruno Merella per la stima e amicizia per mio padre Stefano Pontillo e per aver reso possibile questo toccante ricordo, a lui sarebbe piaciuto tanto, amava parlare delle tante esperienze che il suo lavoro gli permetteva di vivere.
Un grazie di cuore e un caro saluto
Cinzia Pontillo