Andar per chiese antiche/la chiesa di San Mauro_a cura di Anna Palmieri Lallai
La chiesa francescana di S. Mauro, con l’annesso convento, è ubicata nell’ultima parte della lunga via S. Giovanni, angolo via Macomer, nel cuore dell’antico quartiere Villanova.
L’edificio religioso sorge nello stesso sito in cui, in passato, era presente la piccola chiesa della Vergine della Salute, che, circondata da orti e vigne, rappresentava, in quell’epoca, il confine tra il centro abitato e la campagna adiacente. Nei suoi pressi, poco più avanti della chiesa di San Cesello, si trovava la porta Cabana, che costituiva, in quel versante, l’unico varco nelle alte mura medievali che cingevano il quartiere. La chiesa, infatti, al pari delle chiese di S.Lucifero, S.Saturnino e S.Bardilio (quest’ultima ormai scomparsa), era in quel periodo extra muros e solo più tardi verrà lentamente inglobata nell’abitato. L’edificio di culto risale al 1646, quando, per volere di Francesco Gaviano, canonico della Cattedrale di Cagliari, fu fondato in città unconvento francescano, venendo affidato alle cure dei Frati Minori (OFM) che, da subito diedero inizio alla loro intensa vita religiosa, basata sulla più grande rigorosa semplicità, manifestando sempre vivo amore verso tutti, ma soprattutto verso i più bisognosi.
Il vasto complesso religioso (chiesa, convento, noviziato) è dedicato a S. Mauro, “probabile” martire cagliaritano delle persecuzioni cristiane del sec.III, i cui resti furono ritrovati in città, come vuole la tradizione religiosa, presso la basilica paleocristiana di S.Saturnino. Si doveva attribuire il titolo di “Primate di Sardegna e di Corsica” e, ai primi del ‘600, si accese una “bonaria” quanto accesa competizione tra l’arcivescovo di Sassari, Gavino Manca Cedrelles e il nostro arcivescovo, Francesco D’Esquivel. Il Manca, infatti, aveva asserito di aver rinvenuto le spoglie mortali dei martiri turritani Gavino, Proto e Gianuario, e, di rimando, il nostro arcivescovo iniziò l’affannosa ricerca dei nostri martiri, effettuando, tra il 1614 e il 1634, degli scavi archeologici soprattutto nella vasta zona paleocristiana di Villanova tra le chiese di S.Saturnino e S.Lucifero. E gli scavi furono “baciati” dalla fortuna perché portarono al rinvenimento di numerose spoglie di Martiri sardi, oggi custodite nella Cripta o Santuario dei Martiri, in Cattedrale. In questa “contesa”, che vide assegnare il titolo di Primate al nostro arcivescovo, s’inserisce, quindi, il ritrovamento dei resti di San Mauro, santo per fede popolare, ma forse mai pienamente riconosciuto come tale dalla Chiesa ufficiale.
La chiesa dedicata al Santo fu costruita in soli 4 anni, dal 1646 al 1650, e fu inaugurata il 13 febbraio dello stesso anno.
Col passare del tempo, l’edificio, come spesso capita, vittima dei gusti che ogni epoca comporta, ha subito diversi rimaneggiamenti, sia esterni che interni, conservando, però, la sua struttura architettonica originaria, ma soprattutto quell’aria di grande spiritualità che l’aveva posto fin dal primo momento all’attenzione dei fedeli.
Attualmente la facciata esterna a capanna, classicheggiante, di un color ocra, si presenta suddivisa da robuste lesene lisce e cornici in cinque riquadri, nei quali spiccano quattro grandi finestre rettangolari, di cui due vere e le altre finte. Il portale è sormontato da una semplice trabeazione con arco semicircolare che racchiude una lunetta con un affresco sbiadito dal tempo raffigurante S. Francesco. Al di sopra un oculo semicircolare custodisce una finestrina protetta da un’inferriata, e più in alto, oltre una marcata cornice, si apre una nicchia che ospita una statua di S. Antonio di Padova, figura carismatica del mondo francescano.
Sulla destra della facciata si nota ancora la formella con l’indicazione della quinta stazione della vecchia via crucis cagliaritana all’aperto, alla quale partecipavano anche i novizi del convento.
Adesso, come in origine, la chiesa è priva di campanile, ma nella prima metà del ‘900 ne venne elevato uno a vela molto semplice e modesto, che fu successivamente demolito in occasione di ulteriori lavori di restauro perché ritenuto poco in sintonia con lo stile complessivo della chiesa, mentre dall’adiacente via Macomer è visibile la bella cupola maiolicata ottagonale su tamburo finestrato che sovrasta la prima cappella destra. Sul cupolino, oltre la croce, si nota un particolare segnavento con la sagoma di un pesce, da sempre simbolo di rinascita spirituale.
Il portone d’ingresso, posto a livello stradale, non corrisponde all’entrata della chiesa, per accedervi, infatti, devo scendere una breve scalinata, e, una volta superata, l’interno mi appare avvolto in una piacevole penombra, in netto contrasto con la luminosità esterna.
La chiesa si presenta a navata unica, con volta a crociera leggermente accennata nelle tre campate della navata centrale e a botte nel presbiterio e nelle cappelle laterali, tre per lato, intercomunicanti e introdotte da un arco a tutto sesto. Tutto l’ambiente (presbiterio e cappelle) è illuminato unicamente da oculi vetrati col simbolo della croce cosmica.
Essendo la chiesa preconciliare, nel rispetto delle regole liturgiche dettate dal Concilio Vaticano II, è andata incontro a nuove modifiche. Oggi, al centro del presbiterio rettangolare, si eleva un altare semplice, rigoroso, in granito sardo, simbolo eloquente della ben nota “povertà” francescana, dove l’utile elimina il superfluo. L’altare maggiore, di fattura moderna, leggermente rialzato, affiancato da ambone e da un originale tabernacolo, è sovrastato da una pregevole riproduzione del noto “Crocifisso di San Damiano”, il cui originale si trova ad Assisi, nella chiesa di S.Chiara. Di particolare interesse è il coro, che, con gli stalli in legno scuro di antica fattura, si evidenzia nella parete di fondo, illuminata da un grande oculo. Nella parete di fondo non passano inosservati due dipinti di buona mano: a sinistra quello della “Vergine delle Meraviglie” o “Mater Admirabilis”, dovuto al Massa, allievo dello Scaleta e, a destra, il dipinto di San Francesco con San Mauro Abate e San Mauro Martire.
Alle pareti delle tele con ricche cornici dorate ed intagliate, di gusto barocco, raffiguranti scene della vita di Tobia.
Tutte le sei cappelle sono degne di attenzione, ma lo sguardo indugia sulla prima a destra. Qui, sotto una cupola ottagonale su tamburo finestrato, si ammira un maestoso e ricco altare, in stile barocco e marmi policromi intarsiati, dedicato a S.Raffaele Arcangelo, il cui simulacro ligneo è inserito nella nicchia centrale che caratterizza l’altare. Questo, opera di bottega locale, fu commissionato dal terziario Andrea Ligas nel 1745, come attesta una lapide collocata in basso sulla destra, e fu consacrato l’8 dicembre dello stesso anno, come risulta da una iscrizione inserita alla base dello stesso altare. Sopra la mensa dell’altare si trova il tabernacolo con antina cesellata in rilievo, mentre in una nicchia sovrastante, affiancata da due belle colonne tòrtili, in marmo scuro con ricchi capitelli, troneggia la statua di S. Raffaele Arcangelo col piccolo Tobia. Il simulacro, abilmente scolpito, viene comunemente attribuito all’artista di Senorbì Giuseppe Antonio Lonis (1720-1805), al pari delle altre sei piccole statue lignee inserite nelle nicchie delle pareti laterali.
Al centro del paliotto del ricco altare marmoreo policromo intarsiato è inserito un bel medaglione ovale, in bassorilievo, con la figura del santo titolare. L’altare, fin dalla sua origine collocato in questa cappella, nel 1934, in seguito a lavori di restauro, fu trasferito nel presbiterio, diventando così l’altare maggiore, ma, negli anni ’80, come accennato, in seguito alla riforma liturgica voluta dal Concilio Vaticano II, l’altare ritornò dove ancora oggi si presenta alla nostra attenzione.
Superata la seconda cappella dedicata a Sant’Antonio di Padova, la cui statua è accompagnata dai simulacri lignei dei francescani San Benedetto il Moro di Filadelfia e San Bonaventura, si arriva alla terza cappella, dove è custodita la statua di San Francesco, affiancata da quelle di Santa Chiara e di Santa Elisabetta. Sulla parete di sinistra si ammira una grande tela raffigurante Papa Innocenzo III che consegna a San Francesco la Bolla con la quale si conferma la regola dell’Ordine Francescano, riprendendo l’affresco di Giotto della Basilica superiore d’Assisi
Il dipinto, datato e firmato, A.D.1750, di notevole valore sia artistico che religioso, è opera di Sebastiano Scaleta, il pittore settecentesco stampacino, che ha lasciato diverse testimonianze della sua arte sia a Cagliari che nell’isola.
Proseguendo, oltre il presbiterio, lungo la navata sinistra, dopo la cappella in cui viene venerata la Madonna degli Angeli, tipicamente francescana, ed è esposto un grande dipinto raffigurante l’Arcangelo Gabriele con Tobia, mi soffermo davanti la cappella successiva, oggetto di profonda fede e sincera devozione.
Qui, infatti, viene venerato il catalano San Salvatore da Horta che, dopo aver vissuto parte del suo noviziato nell’adiacente Convento, si trasferì nell’allora Convento di Santa Maria di Gesù, oggi ex Manifattura dei Tabacchi, dove il Santo taumaturgo morì il 18 marzo 1567 rimpianto da tutti. Ma le spoglie del Santo non ebbero sereno riposo. Infatti nel 1717, la chiesa ed il Convento di S.Maria di Gesù andarono quasi completamente distrutti durante i bombardamenti della Guerra di Successione spagnola, allorché gli Spagnoli tentarono di riconquistare la città di Cagliari che era stata già assegnata agli Austriaci nel 1713 col Trattato di Utrecht. In tale triste occasione i Frati si trasferirono nella chiesa di S.Mauro portando la cassa con i resti del Santo, collocandola, appunto, in questa Cappella, rimanendovi per ben vent’otto anni, dal 1729 al 1758. Ma quando i Frati di Santa Rosalia ebbero finalmente una nuova sede ed un nuovo Convento (1740), si ripresero le Spoglie del Santo collocandole, definitivamente sotto l’altare maggiore della loro chiesa, in via Torino, Marina.
Oggi, in questa cappella rimane, quasi come testimonianza, una scapola del Santo, custodita in un reliquiario in metallo dorato, mentre il suo cuore si trova a Sassari, nel Santuario della Madonna delle Grazie.
Sotto lo stesso reliquiario, affiancato dalle statue di S.Bernardino e S.Pasquale, è collocato un quadro, lungo e stretto, di autore ignoto, raffigurante “San Salvatore sul letto di morte” e, infine, l’arca in pietra che custodì il sacro corpo all’atto della sua sepoltura.
Ancora pochi passi e nell’ultima cappella, ammiro, collocato in una nicchia, un importante Crocifisso ligneo, di dimensioni ridotte, dovuto allo scalpello del Lonis. E’ un significativo Christus triumphans, dove Cristo viene rappresentato in croce, non dolens, morto, ma ancora vivo e sofferente con lo sguardo rivolto al cielo
Prima di uscire l’ultimo sguardo lo rivolgo alla cantoria, posizionata nella controfacciata, sopra l’ingresso, sul cui soffitto è ancora visibile La cacciata dei Demoni o “La pugna di San Michele” (contro gli angeli ribelli), affresco di Francesco Massa, unica testimonianza dei numerosi affreschi che in passato abbellivano la chiesa, prima che questa affrontasse una serie di restauri che l’hanno maggiormente adeguata alla tipica semplicità francescana.
Alla chiesa, come accennato, è annesso il convento dei frati che, un tempo, a partire dal 1661, ospitò il noviziato e più tardi lo Studio di teologia successivamente trasferito presso i Gesuiti ai piedi di Monte Urpinu.
All’interno del convento si apre un suggestivo chiostro quadriportico settecentesco con al centro un antico pozzo, circondato da un giardino curato, ricco di piante e fiori, recentemente riportato al suo antico splendore. Degno di grande menzione è il nobile compito assunto dai Frati sul recupero dei tossicodipendenti, instancabilmente portato avanti soprattutto da padre Salvatore Morittu.
Lascio la chiesa ben consapevole di aver ammirato quanto la grande spiritualità francescana, che si respira ovunque, può regalarmi con tanta generosità; basta solo saperla “cogliere” e gioirne.