Così i profughi a casa mia_di Gaetano Ranieri
Don Marco ci aveva avvisato di andare al porto all’arrivo del traghetto da Civitavecchia. C’è la bambina cui dovreste accudire. Vi sarà affidata per due mesi. Si chiama Minela. Ha 8 anni.
Andammo un’ora prima dell’attracco della nave, spinti ad anticipare l’appuntamento da un so quale timore, forse di perderla.
Minela scese tenendo per mano un’altra bambina. Piangevano entrambe. Le due sorelline dovevano separarsi e separarsi anche dalla madre. Tenevano in mano entrambe, gelosamente, una busta di plastica semivuota: i loro averi, una mutandina e uno spazzolino. Anche il vestitino era nuovo, probabilmente dato dagli operatori della Caritas nel centro accoglienza di una località del Lazio. Le scarpe invece avevano subito qualche vicissitudine. Conoscemmo anche la mamma che però era stata destinata assieme alla sua figlia maggiore, Sheila, ad un’altra famiglia. Don Marco ci disse di portare Minela e Mascia a casa nostra dove ci saremmo visti per decidere il da farsi.
Un’altra famiglia ci colpì: un’altra madre, giovane, sui 40 anni, con tre figli , un maschietto bellissimo e introverso e due bambine della stessa età di Minela e Mascia. Di Mostar in Bosnia. Erano tutti Musulmani.
Don Marco subito ne approfittò. “Se avreste due stanze potreste ospitare anche l’altra signora con una figlia dell’età di Minela”.
Ci guardammo: feci un cenno a mia moglie, come per dire: possiamo ma non a Cagliari! Avremmo potuto mettere a disposizione la casetta che era adibita a fare le festicciole dei bambini a Sarroch che ha appunto due stanze, una sala da pranzo e una cucina grande.
Minela non sarebbe stata sola. Sua Madre, Fatma, sarebbe stata nella sua stanza, mentre la sorella Mascia, più grandina sarebbe andata da Massimo, a poche centinaia di metri di distanza e Sheila affidata ad un’altra famiglia avrebbe avuto quotidianamente contatto con la madre e la sorellina. Arrivammo a Sarroch dopo mezzora. Minela non aveva smesso di piangere neanche un minuto.
Si fermò tutta la gente di Sarroch e applaudì al nostro passaggio. Sarroch aveva avuto il primato di generosità. Più di venti profughi sarebbero stati ospitati nella cittadina.
Le bimbe si erano calmate, stando sempre abbracciate, appena giunte nella nostra casa e guardando la vita tranquilla che vi si svolgeva. Erano nella parte del giardino di casa prospiciente la dependance da poco più di un minuto, accolte festosamente dal resto della famiglia, quando un boato fortissimo squassò l’aria. Giusto alle spalle della nostra casa era stata eseguita una “varata” (una esplosione di centinaia di chili di tritolo) nella cava di pietra posta nel versante alle spalle, verso Pula, e dopo altri 15 secondi due aerei militari passarono sfrecciando a bassa quota sulla nostra testa. Era la prima vota che anche noi vedevamo aerei così bassi e sentivamo il fragore di una simile esplosione. Le bimbe ripresero a piangere spaventatissime evidentemente scioccate nel ricordo che non avrebbero voluto più evocare.
Don Marco arrivò poco dopo con i bagagli di Fatma, la Madre (poco più di una busta di plastica). E ci lasciò anche Sheila. Nel pomeriggio sarebbero arrivate le altre famiglie ospitanti.
Arrivarono anche Zemira con le due figlie Alina e Maia e il piccolo Ahmed
Non sapemmo dire di no. Preparammo in quattro e quattro otto un pranzo dove parteciparono tutti e poi
mostrammo le camere con la cucina , il bagno e la sala da pranzo.
Il risultato fu che dormirono a casa in quattro: due madri e due figlie. Si trattava di pochi giorni del resto, non sarebbe stato un grande sacrificio. Nel pomeriggio in realtà gli altri figli che vivevano a poche centinaia di metri venivano a trovare le rispettive madri. Otto in tutto di cui 7 di sesso femminile.
Furono giorni bellissimi: Silvia, nostra figlia, piccolissima, divenne il loro giocattolo: la cullavano, la proteggevano, giocavano con lei e con Toby, il nostro cucciolo di Beagle.
Pensammo a tutto: a portarli al mare (due viaggi all’andata e due al ritorno), a curarli (dentista compreso), a portarli a scuola (libri, zaini, quaderni, colori), a provvedere agli abiti e alle scarpe (tutte taglie diverse e ogni mese diverse), al cibo (dando loro i soldi per la spesa e per loro piccoli piaceri).
Pregarono anche assieme a noi in chiesa (loro in un angolo pregavano inginocchiate rivolte verso la Mecca).
Loro cucinavano per noi la loro “Pita” e avevano la dispensa a loro disposizione.
Passavamo tutte le sere a sentire i mariti dal fronte e la figlia maggiorenne rimasta a difendere il suo paese, spesso interrotti dalle bombe che cadevano.
Zemira e i suoi bambini si ricongiunsero al capofamiglia fuggito dalla guerra e scapparono in una parte remota della Basilicata dopo più di un anno passato con noi.
Il nostro telefono divenne ben presto punto di riferimento della resistenza bosniaca e fummo “costretti” a fare da ponte per parlare con i mariti in guerra e le navi dell’ONU pronte allo sbarco.
Ogni giorno fu esaltante per questa famiglia allargatissima. Infatti restarono con noi non solo due mesi , ma ben due anni e 4 mesi. Nell’ultimo periodo venne anche il marito di Fatma e a guerra finita aspettarono a tornare per ricongiungersi con la figlia maggiorenne che era rimasta a Mostar. Dopo un anno tutta la famiglia si trasferì a Chicago negli USA . Le ragazze , diventate altissime trovarono lavoro, (una addirittura divenne una modella). Tutte ancora oggi si ricordano della loro permanenza in Sardegna, del nostro affetto e per le nostre feste (Natale e Pasqua) ci inviano i loro saluti e le loro benedizioni.