L’orgoglio di sentirsi popolo tra altri popoli_di Giovanni Lilliu
Partiamo da un presupposto, da un assioma ormai difficilmente confutabile, cristallizzatosi negli ultimi decenni sino a diventare certezza: il sardo è una lingua. Lo riconoscono glottologi e linguisti di fama internazionale. È una lingua viva, scampata a tutte le tempeste storiche e alle dominazioni secolari.
Spesso i profeti della globalizzazione credono che la lingua sarda sia un dialetto diffuso solo nelle realtà agropastorali, ma si sbagliano. È capace di tradurre la poesia degli antichi e di produrre testi letterari e scientifici perché possiede, come le altre lingue romanze, le parole per farlo e per dirlo.
A onor del vero nell’ultimo periodo nell’isola si è registrato qualche progresso: ormai possiamo annoverare una straordinaria produzione letteraria, teatrale, musicale ed audiovisiva in limba, veicolata anche con tutti i più moderni supporti della tecnologia. Oggi le televisioni locali accolgono volentieri dibattiti, conversazioni e telegiornali in sardo bilingue.
Certo non è semplice affermare la limba nel resto della penisola, soprattutto per quel marcato centralismo che impedisce, anche attraverso interpretazioni restrittive della Corte Costituzionale, di introdurre pienamente il riconoscimento della condizione di minoranza etnico-linguistica della Sardegna e della lingua sarda come lingua nazionale della minoranza.
Allo stato attuale, è impossibile estendere l’insegnamento della lingua e della cultura sarda nelle scuole dell’isola di ogni ordine e grado: quando lo si fa, lo si fa a livello di sperimentazione, restando allo stadio della linguistica. Siamo lontani dall’insegnamento della lingua sarda usata anche per l’apprendimento delle altre discipline, il bilinguismo perfetto è ancora un’utopia.
È chiaramente un processo graduale, da affrontare gradino dopo gradino. Un grosso passo in avanti è stato già compiuto, basti pensare che finalmente (dopo secoli) è consentito l’uso del sardo nelle Pubbliche Amministrazioni e nei collegi deliberativi regionali e locali, anche nelle comunicazioni coi cittadini. Il prossimo step è quello più complesso, quello decisivo: serve razionalizzare la situazione linguistica, unificare ortografia e grammatica, ridurre ad unità tutte le varianti esistenti.
Per farlo bisognerà prendere una decisione fondamentale, tra l’idea (più semplice) di scegliere una delle varianti ed ergerla a lingua, oppure costruire una koiné con l’incrocio delle diverse declinazioni del sardo. Può sembrare complesso, ma non è nulla di diverso da ciò che ha condotto alla formazione della lingua colta catalana: è un progetto di ingegneria linguistica come altri già ci son stati in passato.
Spesso si sottovaluta questa problematica, questa idea che potrebbe invece rivelarsi cruciale per la Sardegna. Se muore la lingua muore la nostra cultura, ma affinché ciò non accada servirebbe una vera e propria svolta: i sardi dovrebbero parlarla in tutti gli ambiti del sociale, dovrebbero imparare ad incrociare le varianti ed abbandonare le fumisticherie globalizzati che producono sempre frustrazioni servili e gravi complessi di inferiorità.
La buona causa della lingua sarda si vincerà se i sardi acquisiranno, aldilà delle diversità, la coscienza della propria appartenenza etnica, la consapevolezza delle proprie radici, la dignità e l’orgoglio di sentirsi popolo tra gli altri popoli.