Quando a Cagliari si costruivano le navi_di Giancarlo Ghirra
Il 24 dicembre 1876 la città di Cagliari visse un momento davvero straordinario: là dove oggi si trova la radice del molo Sabaudo, a Sa Perdixedda prese il mare la prima ed unica nave varata in Sardegna in tutti i tempi. Per assistere all’insolito avvenimento, quel giorno migliaia di persone di tutti i ceti si erano date appuntamento al cantiere navale Falqui Massidda che sorgeva nel litorale ad ovest del porto. Stando ai cronisti dell’epoca si trattò di una cerimonia ricca di imprevisti: tutto filò liscio durante la benedizione, impartita personalmente dall’arcivescovo, ed il battesimo dello scafo con la rituale bottiglia di champagne. Ma quando si giunse al varo, la nave – cui era stato dato il nome di “Cagliari” – si impuntò rifiutandosi di scendere al mare. Seguirono diversi tentativi e, finalmente, la goletta scivolò in acqua. La folla proruppe in un fragoroso applauso.
L’entusiasmo era alle stelle e nessuno si ricordò dell’uomo che aveva creato il cantiere di Sa Perdixedda e voluto la costruzione della nave. Dopo che la sua iniziativa aveva ottenuto i più sperticati riconoscimenti della stampa locale e nazionale ed il sostegno morale e materiale di autorità e personaggi di spicco, Luigi Falqui Massidda si era trovato impegolato in un ginepraio di vicende giudiziarie culminate nel suo fallimento dichiarato dal Tribunale del commercio di Cagliari il 5 febbraio 1874. Cosicché, mentre la gente si spellava le mani a Sa Perdixedda per salutare la discesa in mare della “sua” nave, il cantiere non esisteva praticamente più e, con esso, era tramontato il sogno di impiantare a Cagliari un centro di attività marittime nel cuore del Mediterraneo. Deluso ed amareggiato Luigi Falqui Massidda aveva lasciato la Sardegna e si era ritirato a Monte Cassino dove meditava sui corsi del destino e la malvagità degli uomini.
Il cantiere navale rappresentava la punta di diamante di un vasto programma di sviluppo economico della Sardegna, elaborato dalla vulcanica mente di Falqui Massidda, incentrato sulla valorizzazione delle risorse locali e sullo sfruttamento della felicissima posizione geografica di Cagliari quale ponte tra l’Europa e l’Africa. Il progetto era lungimirante e anticipava di un secolo alcune impostazioni dei nostri giorni relative alla crescita economica e sociale dell’Isola: si pensi ai due piani di rinascita ed alla tematica legata al porto industriale di Cagliari.
Se attuato, il disegno di Falqui Massidda avrebbe favorito il decollo dell’intera Sardegna e soprattutto della sua capitale dove, proprio in quegli anni, l’industria cominciava a muovere i primi passi sotto forma di alcuni molini e di uno stabilimento metallurgico entrato in attività nel viale Trieste ad opera del cav. Stefano Doglio. In particolare, il programma comprendeva la creazione di un «arsenale mercantile, con scalo d’alaggio, studiando intanto di trasformare la darsena di Cagliari in bacino di carenaggio con annessi magazzini ad uso deposito franco», la nascita di una «marineria sarda, avente una linea di navigazione a vapore fra i continenti d’Africa e d’Europa per la costa occidentale della Sardegna, come anello di congiunzione di entrambi i detti continenti», la costituzione di una «società edificatrice per opere edilizie ed altre di utilità pubblica nella città principali e nei comuni dell’isola», l’effettuazione di opere di colonizzazione nel territorio sardo attivate coll’impianto di colonie penitenziario-agricole, opere portuarie, di viabilità ordinarie e ferroviarie, di bonifica di terreni paludosi e l’apertura a Cagliari di un ufficio di pubblicità. Il tutto gestito da una «società generale che, con capitali corrispondenti, presiedesse all’attuazione ed all’esercizio delle intraprese» e sorretto da una «Banca mista, fondiario-agricolo-industriale».
Al cavaliere Falqui-Massidda non manca, dunque, lo spirito imprenditoriale, almeno nella fase dell’ideazione; più difficile sarà tradurre in concreto le sue intenzioni. Neppure il cantiere navale, fulcro dell’operazione, avrà vita facile: andrà avanti per qualche anno per poi fallire miseramente, come accennato in apertura.
Ad ogni modo, animato dal sacro fuoco dei pionieri, Falqui- Massidda si mette all’opera e, come prima cosa, nel 1869 istituisce in città un “Uffizio” di pubblicità e dà vita al quotidiano “La Sardegna”, stampato in una tipografia del corso Vittorio Emanuele appositamente acquistata ed inteso come veicolo per propagandare il suo progetto ed, in generale, le attività economiche isolane.
Subito dopo Falqui Massidda pone mano alla creazione del cantiere navale «fidente nel concorso di tutti i veri patriotti, persuaso che le isole, non possano attendere che dal mare il portato della civiltà e del progresso dei grandi continenti». Forte di questa intuizione e cosciente d’essere il primo cittadino sardo a tentare la carta dell’industria navale, chiede al ministero della marina mercantile la concessione di un arsenile nei pressi della città per la costruzione del cantiere. Ma anche allora la burocrazia non scherzava: perché la richiesta venga accolta passa più di un anno. L’atto ufficiale viene stipulato con l’Intendente di finanza a Cagliari, alla presenza del Prefetto, il 16 maggio 1872.
Ottenuto il tratto di spiaggia, Falqui Massidda rivolge la sua attenzione al legname e cioè alla materia prima indispensabile per la costruzione di navi. A tal fine mette gli occhi sulle foreste di Monte Cresia, nel territorio di Desulo, e su una foresta in agro di Villagrande; ma la mancanza di strade lo induce a desistere e ad acquistare il legname ad Aritzo, Gadoni e Meana Sardo.
Risolto anche questo problema l’animoso imprenditore si reca a Genova col proposito di acquisirvi le «maggiori possibili cognizioni pratiche» in tema di cantieristica navale. Qui, nell’ottobre del 1872, si associa con un costruttore di navi ed un capitano di marina e costituisce una associazione in partecipazione. L’idea del cantiere prende rapidamente corpo, tanto più che numerosi industriali del settore si mostrano disposti a collaborare, con prestazioni o forniture di materiali, per il buon esito dell’iniziativa: la Compagnia Rubattino di Genova, lo stabilimento tessile Gerard di Sampierdarena, la ditta Lastretto di Santa Margherita Ligure, la ditta Leo Negri di Liverpool, la ditta Lipman di Dundee, la ditta Matthias Pessiak di Steinbchel e la ditta Pile di Londra.
Oramai col vento in poppa Luigi Falqui Massidda stila un manifesto in cinque lingue per propagandare il cantiere cagliaritano in tutta Europa ed apre una sottoscrizione di titoli per costruzione di due navi che si esaurisce rapidamente. I natanti sono due brigantini a palo (Brik-Bark) di 1.000 tn. ciascuno ed il capitale raccolto ammonta a 396 mila lire suddivise in 1.584 “frazioni di carato” da 250 lire l’una. L’inaugurazione del cantiere avviene il primo gennaio del 1873 alla presenza della massime autorità accorse a Sa Perdixedda nonostante la pioggia insistente. Subito dopo falegnami ed armaioli entrano in azione per la realizzazione del primo battello; accanto a numerosi sardi, ci sono operai liguri e toscani assunti per la particolare esperienza nella lavorazione del legno e nel suo impiego per fini navali. Giorno dopo giorno il mercantile diventa una realtà.
Il cantiere é circondato da un clima di fiducia e di speranza ed il suo promotore gode di una grande popolarità. Ne fanno fede la concessione da parte del Municipio e della Camera di commercio di Cagliari dei premi stabiliti per la società che avesse costruito una nave in città; il favore del governo; il concreto sostegno del Comune e della Provincia, che acquistano rispettivamente uno e due carati; l’elevato numero dei sottoscrittori tra cui numerose personalità locali (il marchese Edmondo Roberti, sindaco di Cagliari, gli arcivescovi e vescovi di Cagliari, Iglesias, Bosa e Oristano, il cardinale Amat, il marchese Carlo Felice Boyl, il marchese di Villamarina, il commendator Gaetano Lay, i negozianti f.lli Costa, ecc.) e la stessa regina d’Italia che – come si legge sul periodico torinese “Il Conte di Cavour” – «avendo avuto notizia del delicato pensiero di battezzare col nome di sua figlia, la principessa Margherita, la prima nave costruita dal cantiere, prese parte alla sottoscrizione delle azioni».
Il 16 gennaio 1873 Falqui Massidda scrive: «Vorrà Cagliari negare ora al suo concittadino iniziatore, che tanto si adoperò per sostenere gli interessi del proprio paese, quell’appoggio di cui necessita per conservare a questa città il merito di aver efficacemente contribuito a far trionfare finalmente un’industria del tutto isolana?». Una frase indirizzata al potere pubblico perché continui ad aiutarlo ma che vuole essere anche una rivincita nei confronti dei detrattori della sua iniziativa. Infatti, non appena i suoi propositi erano diventati di pubblico dominio, più d’uno lo aveva accusato d’utopia e, nel carnevale del 1871-72, era stata addirittura organizzata una pubblica mascherata «tutta sconce allusioni» al cantiere ed al suo ideatore.
Nel cantiere di Sa Perdixedda, intanto, i lavori procedono: la prima nave cresce a vista d’occhio e, il 27 luglio 1873, le autorità cittadine assistono all’innalzamento dell’asta di prora della seconda nave. La situazione é tranquilla e Falqui Massidda decide di assicurare il cantiere per 200 mila lire presso la Riunione Adriatica di Sicurtà. Nell’agosto successivo trasforma la associazione in partecipazione in società anonima sarda di costruzioni navali ed industriali (con scalo d’alaggio in Cagliari) mediante fusione del suo stabilimento con quello di proprietà di Michele Carboni, specializzato nella lavorazione del legno e del ferro, posto nello stesso arenile di Sa Perdixedda.
La costruzione delle due navi procede alacremente e tutto lascia credere che tra non molto, potranno essere varate. Ma, purtroppo, non é così. La fortuna, che nonostante le difficoltà aveva sino ad allora accompagnato il suo lavoro, improvvisamente volta le spalle a Falqui Massidda e fa scricchiolare paurosamente la sua iniziativa. Al duplice fine di assicurare al cantiere un regolare approvvigionamento di legname e fornire alla Compagnia reale delle ferrovie sarde uno stok di traversine per cui si era impegnato con una convenzione firmata il 12 febbraio 1874, l’imprenditore cagliaritano aveva stipulato contratti con ben 171 proprietari di Bonorva per l’acquisto degli alberi che si trovavano nelle loro proprietà. E subito dopo aveva provveduto a far venire dalla Toscana una squadra di segantini per il taglio delle piante. L’operazione che avrebbe garantito la materia prima del cantiere e rinsanguato le finanze della società, venne però bloccata dal pretore di Bonorva che, dietro istanza di quel Comune, il 4 marzo 1874 ordinò il sequestro delle partite di legname.
Per Falqui Massidda é l’inizio di una caduta vertiginosa. I sottoscrittori, impauriti anche dalle voci messe in giro dagli avversari di Falqui Massidda, cominciano a prendere le distanze; numerose cambiali vanno in protesto e le banche chiudono i rubinetti del credito. Ma l’imprenditore non si arrende: ridimensiona i suoi programmi, puntando non più su due navi da 1000 tn. e, per fugare ogni dubbio circa la serietà dell’iniziativa, promuove la costituzione di un “Consiglio di revisione e amministrazione”, presieduto dal sindaco Edmondo Roberti e di cui fanno parte il sen. Giovanni Spano, l’avv. Francesco Ballero, il presidente del Tribunale del commercio Michele Carboni, il commerciante Bernardo Dessì ed altri esponenti del mondo politico e degli affari.
Falqui Massidda riprende fiato e la costruzione della goletta procede velocemente. Ma la situazione é ormai deteriorata e le difficoltà non tardano a manifestarsi nuovamente: qualcuno ricorre al Tribunale del commercio di Cagliari che, con sentenza del 5 febbraio 1876, dichiara il fallimento di Falqui Massidda. In preda ad un vivo scoramento l’imprenditore lascia la città e si ritira a Monte Cassino.
Dopo circa un mese la goletta, che nel frattempo era stata ultimata, viene venduta all’incanto; la acquista ad un prezzo vile il cav. Efisio Timon membro dello stesso Tribunale del commercio che aveva dichiarato il fallimento del Falqui Massidda. Dal che si deduce che, anche nell’Ottocento, non sempre l’etica veniva rispettata.
Si giunge così al 24 dicembre 1876 allorchè moltissimi cagliaritani si recano a Sa Perdixedda per assistere all’inconsueto spettacolo del varo della goletta. Come detto all’inizio, la cerimonia riserva agli astanti un imprevisto fuori programma: la goletta, infatti, fa le bizze e non ne vuole sapere di andare avanti. In “Cagliari che scompare” Luigi Colomo ha così descritto la scena: «Al convenuto segnale caddero i puntelli, vennero rotte le gomene d’acciaio, messe in moto le balestre, onde lo scafo, come scosso da un fremito poderoso, cominciò la discesa fra gli applausi festosi dell’immensa folla. Ma la gioia fu di breve durata, perchè a poca distanza dalle onde che già ne lambivano, quasi, il tagliamare, lo scafo si fermò. Furono messi in opera tutti i mezzi che l’arte di costruzione navale consigliava, ma ogni sforzo si infranse di fronte alla resistenza passiva della grande mole».
«A un certo punto – racconta ancora il Colomo – si vede arrivare la nave da guerra “Authion”, che era di stazione permanente nel nostro porto. Giunta in prossimità del cantiere, gittò una grossa gomena, che fu legata alla prora dello scafo varando. La regia nave cominciò la sua opera di rimorchio; ma per quanto la ciminiera – che emetteva dense nuvole di fumo nero – indicasse che si alimentava a tutta possa la nave, per quanto la gomena che legava l’uno all’altro legno fosse tesa fino a spezzarsi, il “Cagliari” non accennava a muoversi».
La costernazione dei presenti cresce e la festa sembra oramai saltata. Ma un ultimo tentativo risulta decisivo: «Venne in soccorso – dice il Colomo – il “Piemonte”, della società Raffaele Rubattino di Genova, non ancora fusa con la “Florio” di “Palermo: e col poderoso ausilio di quest’altro piroscafo, ecco fremere di nuovo lo scafo nella sua invasatura. Preso, in men che non si dica l’abbrivio, scese maestosamente nello specchio del mare calmissimo».
Iscritta al compartimento marittimo della nostra città, il 15 febbraio 1878 la goletta “Cagliari” comincia a solcare i mari al comando del capitano Bonsignore. Ma ciò non vale a far rinascere il cantiere di Sa Perdixedda su cui grava come una pietra tombale la sentenza di fallimento a carico del suo promotore. Tuttavia, Falqui Massidda riprende a lottare e si lancia in un’interminabile serie di azioni giudiziarie per far trionfare le sue ragioni: ci riesce il 10 marzo 1888 quando la Corte d’Appello di Ancona condanna Efisio Timon alla restituzione della nave. Una bella soddisfazione personale ma del tutto inutile sul piano pratico. La suggestiva idea di creare a Cagliari un’industria navale era naufragata da un pezzo.