Novembre 21, 2024

La miniera preindustriale di Su Zurfuru_di Tarcisio Agus

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L’Itinerarium Antonini redatto all’età dell’imperatore Caracalla, III s.d.C., in Sardegna prevedeva 7 itinerari, noi ci soffermiamo sull’itinerario n. 5 il Tibula Sulcis, in quanto nell’ultima parte del percorso, compreso tra Neapolis e Sulci, si colloca la miniera di Su Zurfuru entro la regione o città, meglio nota Metalla. Toponimo che ancora fa discutere tra quelli che propendono a indicarla come città romana delle miniere, ma che a oggi ancora non si è individuata, nonostante nell’itinerario  siano riportate le distanze da Neapolis e Sulci (30 miglia). Molti studiosi considerano l’importante viabilità romana un itinerario economico, verosimilmente Metalla  rappresenterebbe il centro della regione mineraria, considerata mansiones metalla, ossia una risorsa mineraria di cui tenere conto, come le manisiones ferraria o tegula per esempio. Solitamente nel territorio indicato era presente una mansio, una dimora, una stazione di sosta, un luogo di concentramento, nel nostro caso di minerali, in particolare in regioni impervie e di difficile accesso distanti dalle città e dai porti.

Certo è che il territorio presso la miniera di Su Zurfuru ha visto la presenza umana sin dal periodo prenuragico, attraversando le successive fasi nuragiche, punico e senza ombra di dubbio romane. Basterebbe pensare alla sala archeologica della grotta Su Mannau, non molto distante, che nonostante i saccheggi, ha restituito un’area dedicata al Culto delle Acque, con una continua frequentazione dal 4500 a.C a 456 d.C.

In questo lungo periodo l’uomo in Sardegna ha scoperto la grande ricchezza mineraria che ha sfruttato con importanti produzioni metallurgiche.

Altra testimonianza prossima a Su Zurfuru è il corredo funerario delle tombe n.2 e n. 3 della necropoli nuragica presso il tempio di Antas, scavate dal prof. Giovanni Ugas, che hanno restituito rispettivamente una perlina in bronzo e due vaghi di collana d’oro,  un vaso in argento laminato in oro, un pendaglio a disco in argento, un anello e una statuina in bronzo (Bronzetto), ascrivibili alla fase nuragica prima età del Ferro (IX-VIII secolo a.C).

Materiali ben noti in fase nuragica e presenti nell’area del fluminese, la seconda Barbagia per  l’isolamento e l’asperità del territorio, certo non è possibile oggi affermare che il bronzetto ritrovato possa esser stato prodotto in loco, anche se sul territorio erano presenti le materie prime per le produzioni bronzee, il rame e lo stagno (cassiterite) nella miniera di Perdu Cara. Se restano ancora ombre sull’attività mineraria in fase antica, compresa quella Punica, presente nel territorio di Antas con il tempio del Sid Addir Babai.  Furono i punici a far conoscere ai romani in particolare l’oro, l’argento e il piombo. Purtroppo le carenti investigazioni archeologiche non ci permettono di dire di più, mentre non si hanno dubbi sullo sfruttamento minerario in fase romana.

La presenza del tempio del Sardus Pater, che inglobò quello punico, testimonia l’importanza del sito, sfruttato dagli  indigeni che le successive colonizzazioni hanno ingraziato con l’edificazione dei templi dedicati al loro santo protettore. Il tempio di Antas rappresenta il più alto segno della presenza di Roma nell’area e non solo, per altro, eretto presso il vasto giacimento di ferro della miniera omonima. L’altro importante  segno dell’attività mineraria nel territorio è senza dubbio il ritrovamento dei lingotti plumbei di Augusto (27 a.C-14 d.C) e di Adriano (117-138 d.C) con l’incisione Caesaris Aug(usti) del peso di CVII libre, pari a 35,585 kg nella miniera di Colombera e quello di Adriano nella miniera di Carcinadas, con la scritta Imp(eratoris) Caes(aris) Hadr(iani) Aug(usti). Prodotti nelle miniere imperiali attraverso impianti fusori che potevano sfruttare l’ingente patrimonio  silvano dell’area e il corso perenne del Flumini Mannu.

Nel II s.d.C. sarebbe documentato il distaccamento delle milizie romane in Sardegna nell’area di Metalla, per la gestione delle attività. 

La caduta dell’impero romano e l’avvento barbarico che interessò l’isola con l’invasione dei Vandali   (456) al comando del re Genserico sino a 534 d.C, non ci ha lasciato alcun dato sulle attività minerarie, in generale in Sardegna, verosimilmente anche Metalla fu abbandonata. 

L’estrazione mineraria riprende nuova vita intorno all’anno 1000, con la presenza dei genovesi e in particolare dei pisani che contrastarono sui mari e nella terraferma le continue scorribande saracene. Nel frattempo la Sardegna non controllata più dai bizantini si auto governava con la costituzione dei quattro Giudicati, a cominciare dal IX s.d.C., lo ricorda l’epistola di papa Gregorio VII del 14 ottobre 1073, inviata ai quattro giudici.

Metalla entra a far parte del Giudicato di Arborea alleata ora con Genova ora con Pisa, questo consentì la riapertura dei commerci e in particolare con i pisani si ha la ripresa più consistente delle escavazioni. 

Uno dei primi riferimenti che interessano anche Metalla lo ricorda Comita III de Lacon-Serra, sovrano arborense, che nel 1131, con le sue mire espansionistiche chiese aiuto a Genova per la conquista del Logudoro, proponendo in cambio la metà delle miniere d’argento del regno, “medietatem montium in quibus invenitur vena argenti in toto regno meo”.

La storia di Metalla, rispetto alle miniere facenti parte del Giudicato d’Arborea muta nel 1258 con la conquista del regno filogenovese di Cagliari, guidata da Guglielmo di Capraia con i Gheradesca conti di Donoratico e i Visconti di Pisa. Nella spartizione del regno di Cagliari, Guglielmo di Capraia estese i suoi territori dall’Arborea sino alle porte di Cagliari, i Visconti ebbero la parte nord occidentale e i Donoratico la zona sud-ovest dell’isola, con tutte le miniere dell’iglesiente.

Nasceva così la regione Argentiera che racchiudeva tutte le miniere attorno a Iglesias, da Campo Pisano a Fluminimaggiore. Il territorio si rianima con l’attività di liberi minatori che riprendono gli antichi scavi compresa l’area di Su Zurfuru, con nuove fosse e nuove estrazioni minerarie che frantumavano e lavoravano nei corsi d’acqua per essere poi ceduti ai Gualchi (proprietari dei forni fusori) in particolare per separare il piombo dall’argento.

I pani d’argento e di piombo venivano poi ceduti ai Camerlenghi della città (pubblici cassieri dello Stato) per l’esportazione e la coniazione delle monete. Ce lo ricorda un documento datato 19 luglio del 1331, su un contenzioso tra Betino de Revonich abitante nella villa di Flumini e i Camerlenghi di Villa di Chiesa. L’argento estratto nell’Argentiera sappiamo ampiamente utilizzato nella zecca d’Iglesias ove i pisani coniarono  la prima moneta medioevale della Sardegna, il Denaro, con sul retro lo stemma dei Donoratico (Scudo partito, mezz’aquila e spaccato, contornato dalle scritte GVELF ET LOTT COMITES D’ONORATICO ER T(er)CIE P(ar)TIS REGNI KALL(ari) D(omi)NI. Sul verso compaiono una croce e le leggende VILLA ECCL(es)IE D’SIGERRO e SIT NOMEN D(omi)NI BENEDICTUM.

L’intensa attività mineraria nel fluminese non ebbe lunga vita perché 65 anni dopo, 13 giugno del 1323, Alfonso il Benigno sbarcò a Palmas nel Sulcis, ponendo sotto assedio Villa di Chiesa. Assedio che cambiò il destino del territorio, i pisani ormai sconfitti e confinati nella rocca cagliaritana, ceduta in feudo al comune di Pisa, non disponevano più del vasto patrimonio dell’Argentiera. Smembrata, con l’assegnazione dei territori e dei borghi ai feudatari aragonesi, a nulla valsero le insurrezioni degli abitanti delle ville attorno a Villa di Chiesa del 1353 che portarono alla distruzione della stessa città.

Con la data del 1 febbraio 1355 Re Pietro diede nuove disposizioni per il ripopolamento della città e la ripresa dei lavori nelle miniere. La presenza dello Stato in ambito minerario distrusse la libera iniziativa privata che non riuscì a ricostruirsi, aggravata nel 1364 da una forte mortalità che colpì le popolazioni dell’iglesiente  pare dalla peste, malaria e  siccità. Un breve periodo di rinascita dell’attività mineraria sembrava riprendersi dopo la conquista di Brancaleone Doria (marito di Eleonora) nel 1391.

La speranza di una nuova ripresa sotto gli Arborea, che stava per completare l’unità della Sardegna, svanì 14 giungo del 1409 nella battaglia di Sanluri, con la resa d’Iglesias un mese dopo. Gli aragonesi di nuovo padroni dell’Argentiera nel 1420 introdussero il concetto giuridico che la proprietà del sottosuolo, disgiunta da quella del sopra suolo apparteneva allo Stato che poteva farne concessione. Ma evidentemente le concessioni non interessavano più di tanto i feudatari, tanto meno lo Stato che già possedeva in terra di Spagna importanti miniere di piombo e argento, e già accarezzava, agli inizi del 1500, i grandi tesori d’oro e argento del nuovo mondo appena conquistato.

Fluminimaggiore, considerata villa presso San Nicolò dove insiste un abitato romano e la chiesa omonima per alcuni, mentre per altri non doveva essere molto distante dall’attuale insediamento  perché faceva parte di una serie di abitati sparsi di fase romana, forse prossimi alle cave minerarie, tanto che qualcuno lo avvicina al sito di Su Zurfuru, indicando la sua ubicazione a meno di 2 km dall’attuale abitato, in direzione NNE. A sostegno di questa tesi potrebbe essere portato il documento del 1336 che richiama le dispute di confini fra gli uomini del bosco di Fluminimajoris con la villa di Antas. Certo è che il 6 di febbraio del 1421 Flumimajor viene infeudata con la villa di Antas a Benedetto Bisconte di Gessa.

Trecento anni di infeudazione in cui Flumini Major è ora attiva, ora spopolata come dagli atti del 1546, sino a quando Ignazio Asquer, sposando Eleonora Gessa, il 15 di febbraio del 1688, proponeva di ripopolare l’abitato. Non abbiamo dati certi che le prime concessioni aragonesi abbiano sfruttato il sito di Su Zurfuru, sappiamo che nel 1507 una prima concessione delle miniere dell’iglesiente fu data a Giovanni Francesco Napoletano, succeduta nel 1514 da quella data a Carlo Martin francese, ma nessuna delle due concessioni ebbe esito positivo.

Per conoscere ulteriori concessioni sull’iglesiente dobbiamo andare al nuovo secolo, quando ottenne la concessione il reggente della Real Cancelleria, Pietro Giovanni Soler, ma le pesanti condizioni imposte dalla Corte lo costrinse ad abbandonare l’impresa. Altrettanta sorte ebbe la concessione data all’avvocato fiscale Cristoforo Agonduro. La terza concessione venne data nel 1614 al cagliaritano Martino Squirro, per 30 anni, su tutte le miniere che andavano da Oristano a Capo Teulada. Tentò l’ardua impresa ma la morte lo colse proprio nella fase organizzativa e l’eredità passò al fratello Giacomo che con il socio Filippo Duch continuò l’opera del fratello costruendo in molti cantieri abitazioni per gli operai, magazzini e installando perfino alcuni forni fusori nei pressi di Masua e Nebida, ma il coraggioso tentativo naufragò di fronte alle ferree clausole dello Stato spagnolo.

Nel 1642 vi fu una nuova concessione a Bernardino Tolo Pirella e Nicolò di Nurra. Ottennero una concessione per 40 anni, con un canone del 5% al netto di ogni altra imposta. Nacquero contestazioni per le difficoltà di mantenere gli impegni assunti e dovettero, loro malgrado, abbandonare l’impresa. Il fallimento della politica spagnola sull’attività mineraria fu palese e dalla metà del 1600 le miniere del territorio furono di fatto abbandonate.

Per sentir parlare di nuove concessioni dobbiamo aspettare l’evento dei Savoia, intenzionati a rilanciare le miniere sarde. Nel frattempo, con atto stipulato il 22 di aprile del 1704, tra il Visconte Asquer e i terralbesi Paolo Angelo Serpi, Francesco Pinna e Pietro Maccioni, si dava inizio al ripopolamento di Fluminimaggiore. Prevalse quindi la politica degli Asquer che puntavano all’aumento delle popolazioni utili all’economia territoriale a differenza dei Gessa più dediti al potere mercantile e l’acquisizione di nuove terre da sfruttare.

La prima vera concessione dei Savoia che interesserà l’area del fluminese venne data alla società Nieddu e Durante, per 30 anni, 18 agosto del 1721. Con la coltivazione della miniera di Spirito Santo le attività estrattive che coinvolsero tutte le miniere note di Fluminimaggiore, compresa la miniera di Su Zurfuru, convinse la società a erigere su rio Flumini presso l’abitato di Fluminimaggiore due impianti di fusione, oltre ai minerali non mancavano certo gli altri due elementi necessari alle fonderie, acqua dalla sorgente Pubusinu e legna dei boschi in cui erano immersi tutti i siti minerari. Del sito restano ancora tracce, nella periferia est del paese, con scorie e ruderi e il toponimo che ancora perdura, Sa Funderia. La ditta Nieddu e Durante aprì i lavori anche ai privati ai quali concedeva autonomia estrattiva in aree reputate di scarsa produzione con l’impegno di acquistarne le produzioni, ma  pronto a bloccarli con la riaquisizione dei permessi se le produzioni fossero state di maggior ricchezza da quelle preventivate.

L’iniziativa della ditta Nieddu e Durante non ebbe i risultati sperati e la casa Savoia il 30 luglio 1740 affidava una nuova concessione a Carlo Gustavo Mandel, console svedese a Cagliari, e i soci Carlo Brander e Carlo Holtzendorff. Il Mandel animato di grande volontà puntò sulle miniere di Monteponi, Montevecchio, Matoppa (Masua) e S’Acqua Cotta, ove distribuì un centinaio di minatori tedeschi. Mentre affidò lo sfruttamento a sub concessionari, come per la miniera di Spirito Santo, concessa nel 1750 a Giovanni Maria Aru e Giovanni Battista Melis di Arbus.

Con molta probabilità il Mandel non riprese i lavori attuati da Nieddu e Durante e tanto meno la fonderia che preferì realizzarla a Villacidro, più accessibile da parte delle due grandi aree minerarie dell’arburese – guspiniese e dell’iglesiente, in quanto il fluminese era raggiungibile solo attraverso l’antica strada romana Tibula Sulci e presumibilmente le caratteristiche dei minerali dell’area non erano confacenti con le tecniche fusorie del tempo, tanto che una partita di minerali (160 t) che i padroncini arburesi avevano cavato nella miniera di Spirito Santo fu rifiutata dalla fonderia di Villacidro perché contenente un’eccessiva quantità di zinco e pare di rame.

Sicuramente questa situazione creò non pochi problemi con i sub concessionari che operavano nel Marganai e gli intendenti generali Conte di Ferro e Conte Cardara, nel 1756, si attivarono perché fosse imposto al Mandel l’apertura di una fonderia sul rio Canonica (Iglesias), per trattare i minerali del Marganai che tre anni prima vennero rifiutati dall’impianto di Villacidro. Opera mai realizzata perchè le difficoltà nella vasta gestione mineraria non tardarono ad arrivare, a cominciare dalle energiche proteste dei lavoratori alle dipendenze dei padroni stanchi per le esose condizioni di lavoro e per le irrisorie retribuzioni che spesso avvenivano in natura (prevalentemente grano), mentre nelle miniere gestite dal Mandel i salari venivano pagati ogni settimana in denaro.

A questa turbolenta condizione si aggiunse la morte del direttore della fonderia di Villacidro e la diffidenza dei finanziatori che non credendo più nel progetto si defilarono. Ne scaturì un’inchiesta che il Mandel affrontò con energia anche nei tribunali per le cause che si generarono, tanto che trovò il modo per aprire gli scavi minerari di Monte Narba con alti rendimenti di argento e continuò la produzione della polvere da mina presso Isili, cedendo solo con la sua morte, 10 maggio del 1759.

Il Mandel lasciò come esecutore testamentario il sardo avvocato don Antonio Vincenzo Mameli nominato poi dallo Stato Regio Economo Interinale, ma che dovette lasciare a seguito della definitiva condanna del Mendel nel 1762. Il 5 di giugno dello stesso anno la direzione delle miniere della Sardegna venne assunta dall’ Ing. Belly per conto dello Stato. Il Belly per quanto intraprendente e conoscitore delle realtà minerarie sarde, visitò le regioni minerarie dell’isola, non riuscì a eguagliare l’opera del Mandel e del Mameli, contrastò l’iniziativa privata anche se questa per la disorganizzazione continuava ad operare pur senza alcun futuro.

La situazione precipitò quando il Belly venne distratto dallo Stato per occuparsi delle miniere piemontesi e lombarde per cui in Sardegna venne meno l’opera dello Stato e dei privati con risultati deludenti. Per risalire la china, visto il depauperamento delle maestranze che ormai preferivano ritornare all’agricoltura, tentò con l’utilizzo dei carcerati, in particolare a Monteponi, nel tentativo di rilanciare la fallimentare impresa mineraria sotto il controllo statale. Gli sforzi del Belly spesso non sostenuti con opportune risorse economiche dello Stato si chiusero con la sua morte nel 1792.

Dobbiamo aspettare il nuovo secolo prima di una nuova concessione che avvenne il 22 di aprile del 1806 in favore del danese Conte Edoardo Vargas Kiel che per le difficoltà tecniche ed economiche lasciava l’impresa nell’anno successivo. Andava così crollando il lavoro fatto dal Mandel tanto che non si riuscì a costriuire la fonderia a Iglesias e quella di Villacidro, per mancanza di manutenzione, andò verso la sua definitiva chiusura, con il resto delle miniere ormai ridotte a pochissime escavazioni senza mercato.

Dopo una visita dell’ispettore delle miniere Despine su Monteponi e Montevecchio, giudicando quest’ultima di poco conto, prospettò la necessità di ricorrere all’iniziativa privata così anche nel fluminese, nel 1829, si affacciarono nuovi imprenditori con alcune ricerche nell’area a Arenas. Esperienza che durò poco perché anche l’assegnazione di Monteponi ai privati fallì miseramente e la stessa miniera come il resto delle aree minerarie tornò in capo allo Stato. Il sardo Ing. Francesco Mameli che curava l’attività mineraria di Monteponi, dopo 15 anni di gestione statale, si convinse che lo Stato era inadatto a condurre imprese così rischiose. L’ingegnere iglesiente nella sua relazione del 1847 affermò con coraggio che solo l’industria privata, dotata di sufficienti capitali, sarebbe stata in grado di condurre a buon fine la gestione di una grande impresa mineraria. Si avviava così, sull’indicazione del coraggioso Ing. Mameli, la rinascita mineraria in Sardegna con la successiva “Era industriale”.

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