Peter Gabriel: l’uomo, l’artista, il sardo_di Giuseppe Melis Giordano
Premessa
C’è un genere musicale, il rock progressivo, che ho avuto la fortuna di conoscere da studente delle scuole superiori. Un genere che, nato negli anni Sessanta del secolo scorso in Gran Bretagna, si è poi sviluppato soprattutto in altri Paesi come Germania, Italia e Francia. Tra i suoi più celeberrimi protagonisti si annoverano band musicali come Pink Floyd, Emerson, Lake & Palmer, King Crimson, Yes, Jethro Tull, Genesis e, in Italia, Premiata Forneria Marconi e Banco del Mutuo Soccorso in modo particolare.
Tra questi, i Genesis catturarono subito la mia attenzione, oltre che per le monumentali opere da 10 minuti e oltre, soprattutto per i virtuosismi di ogni singolo componente la band e, segnatamente, del tastierista Tony Banks, anche perché io stesso ho studiato pianoforte al Conservatorio ed ero attratto da brani come Firth of Fifth con una intro che costituiva uno degli obiettivi di apprendimento degli studenti di pianoforte amanti di quella musica rock melodica.
Quando poi il suo frontman Peter Gabriel lasciò il gruppo ne ebbi un grande dispiacere e per decenni ho coltivato il desiderio di poter vedere un concerto di quella band con la formazione iniziale composta da Gabriel, Hackett, Collins, Banks e Rutherford. Così non è stato e quando nel 2019 ci fu la notizia della tournée dei Genesis, orfani di Gabriel e Hackett, decisi insieme a un amico di comprare i biglietti in qualunque città d’Europa si svolgesse il concerto. Purtroppo, la pandemia ci costrinse ad abbandonare l’idea e questo mi ha molto pesato, visto che è stata l’ultima volta in cui quei Genesis avrebbero suonato insieme.
Insomma, sembrava destino che io non potessi vedere almeno una volta nella vita i miei idoli musicali che mi hanno accompagnato dall’adolescenza a oggi.
A novembre del 2022, poco dopo aver colto l’occasione di sentire i brani dei Genesis dal vivo grazie al concerto di Steve Hackett e la sua band, ecco che esce la notizia di una tournée di Peter Gabriel con due tappe italiane nella primavera del corrente anno. Insieme allo stesso amico della prima volta, decidemmo nel giro di qualche ora di comprare i biglietti non appena sarebbero stati in vendita. E così facemmo, decidendo di toglierci la soddisfazione di vederlo da un’ottima posizione, in platea, settima fila, a 20 metri di distanza dal palco.
Il grande giorno
Finalmente arriva domenica 21 maggio. Alzati per tempo, preso l’aereo per Milano, siamo arrivati al Palaforum di Assago e, dopo aver ritirato la nostra shopper contenente i gadget riservati a chi aveva acquistato le poltrone in area VIP, entriamo nella sede del concerto. Eravamo elettrizzati, abbiamo fatto subito delle foto della gente che arrivava. Poco più in là vedo arrivare il mio connazionale sardo Paolo Fresu. Avrei voluto chiamarlo e salutarlo ma non era vicinissimo. Lentamente il forum si riempie, nel palco si vedono degli operai in tuta arancione che maneggiano strumenti, cavi, ecc. Insomma, il momento desiderato per una vita si avvicinava attimo per attimo.
In questo spazio, però, non voglio raccontare il concerto ma mi piace l’idea di soffermarmi su Peter Gabriel come uomo, oltre che come artista e, anche se vi apparrà strano, come sardo … di adozione.
Perché un articolo su Peter Gabriel ne Il Cagliaritano?
A mio parere per diversi motivi tra loro strettamente connessi.
Un primo motivo è che nel panorama della modernità questo cantante che suona diversi strumenti musicali (flauto, pianoforte, tamburello, ecc.) si è ritagliato un ruolo che va ben oltre la sfera artistica ma nel tempo è diventato anche ambasciatore di una visione del mondo centrata sulla salvaguardia dell’ambiente, sulla tutela delle minoranze e sulla difesa dei diritti umani. Questo impegno lo ha visto come coordintore e partecipante allo Human Rights Now! Tour del 1988, con Amnesty International. Nel 1989 fonda Witness.org, dando macchine fotografiche e computer agli attivisti per i diritti umani. Questa associazione ha vinto molti riconoscimenti e si è fatta promotrice dell’adozione di video e di Internet nelle campagne a favore dei diritti umani. The Hub è stato lanciato nel 2008, fornendo una piattaforma per i video sulla difesa dei diritti umani provenienti da ogni parte del mondo (una sorta di YouTube per i diritti umani).
Un secondo motivo è legato al fatto che l’età conta fino a un certo punto nella capacità creativa delle persone. Peter, classe 1950, 73 anni compiuti il 13 febbraio u.s., dopo quasi ventuno anni sta per pubblicare un nuovo disco i cui brani (ben dodici) sono una parte fondamentale della tournée iniziata lo scorso 18 maggio a Cracovia (Polonia) e che si concluderà il prossimo 21 ottobre a Houston (USA). Come ha scritto il giornalista e conduttore radiotelevisivo Carlo Massarini, Peter Gabriel “è la personificazione del concetto when the time is right: le cose succedono quando è giusto che succedano” a significare che c’è un tempo per tutto, e a volte bisogna saper aspettare.
Creatività che si esprime non soltanto nei brani musicali ma nell’allestimento dell’intero spettacolo, capace di sorprendere dall’inizio alla fine, anzi da prima che si inizi a suonare e cantare fino a quando gli strumenti si interrompono e rimane il pubblico che continua senza musicisti l’esecuzione del brano. Il pre-concerto è uno spettacolo a sé che a molti potrebbe passare inosservato: infatti, mentre gli spalti si riempiono, il palco è un pullulare di tecnici in tuta arancione che lavorano (forse) per concludere la sistemazione degli strumenti, dei cavi e di ciò che serve per l’inizio dello show. Il tutto accade mentre nel grande schermo circolare che sovrasta il palco appare un orologio con numeri romani e nello sfondo un altro operaio in tuta arancione e berretto (coppola) che disegna le frecce del tempo cambiandole minuto dopo minuto quasi a scandire quanto mancasse all’inizio dello spettacolo. Eppure, lo spettacolo era già iniziato perché, alla fine, nel palco rimane solo uno di questi signori in tuta arancione e berretto che prende il microfono e inizia a parlare in italiano, un po’ stentato: è lui, Peter, sorprendente come sempre. E giù applausi!
La fine dello spettacolo, invece, ti sorprende perché si coglie la grandezza dell’uomo: di norma tutti abbiamo assistito a eventi che si chiudono, come ci si aspetta, con i protagonisti che insieme ringraziano il pubblico, spesso presi per mano o abbracciati. Ebbene, Peter ci sorprende anche con l’ultimo brano, il secondo bis, in cui canta Biko, brano pubblicato nel 1980 in cui si parla di Stephen Biko, attivista anti-apartheid sudafricano, arrestato dalla polizia sudafricana nell’agosto del 1977 che, dopo essere stato tenuto in custodia per giorni, venne interrogato e malmenato nella prigione di Walmer Street a Port Elizabeth. Uscito dall’interrogatorio con serie ferite alla testa, Biko fu trasferito in una prigione di Pretoria dove morì poco dopo, il 12 settembre 1977.
Un brano dalla carica emotiva e politica gigantesca, con la foto di Biko che sovrasta nello schermo circolare, che guarda il pubblico e che sembra voler rinnovare l’appello a non accettare le discriminazioni di ogni tipo, a lottare sempre per la libertà.
Ebbene, la luce e il calore rossi che promanano dal viso di Biko e da tutto il palco accompagnano l’uscita di scena dei musicisti, primo Peter, poi a seguire gli altri fino al batterista Manu Katché il quale, mentre la gente continua a cantare, smette anche lui di suonare ed esce di scena ma il pubblico continua ancora per alcune battute, diventando esso stesso protagonista ultimo di questo memorabile evento.
Un’ulteriore ragione che mi pare importante è la sua capacità di andare oltre le generazioni, sia nella musica prodotta, sia nell’allestimento della band dove compaiono altri tre vecchietti della musica rock come Tony Levin (suo amico da sempre), David Rhodes e Manu Katché, e dei giovani come Richard Evans (seconda chitarra+flauto), Josh Shpak (tromba), Don McLean (alle tastiere), Marina Moore (violinista) e la clamorosa Ayanna Witter-Johnson (violoncello e canto). In un periodo in cui troppe volte si assiste a conflitti intergenerazionali la band di Peter fa capire che la capacità di comprensione reciproca passa attraverso il linguaggio e il dialogo, compreso quello musicale, che è universale.
Un altro motivo ancora riguarda l’energia che proviene da quest’uomo che, nonostante l’età, continua a correre e saltare nel palco come quando aveva molti decenni di meno, certo con più lentezza e senza gettarsi sopra il pubblico ma con allegria e con passi coordinati con gli altri due vecchietti.
Non mi soffermo su tutti gli altri brani, tranne che uno, che ho sempre considerato un inno valido per ogni essere umano esistente sulla terra e, nel contempo, un inno che a me piace dedicare alla mia Nazione Sarda. Si tratta di Don’t Give Up, un singolo che Peter Gabriel cantò inizialmente con Kate Bush, pubblicato nel 1986 ed estratto dall’album So. Si tratta di un brano struggente che descrive la disperazione di un uomo che si sente isolato e sconfitto dal sistema economico ma che trova in Kate Bush il supporto a non arrendersi ma a ritrovare le energie per superare le difficoltà. Nella tournée la parte femminile è cantata dalla bravissima e sorprendente violoncellista Ayanna Witter-Johnson, una voce nera, che cattura, che coinvolge, che fa salire l’emozione tanto da generare applausi a scena aperta in tutto il pubblico in un unico sentimento di vicinanza verso chi soffre per qualsiasi motivo. A tale proposito, sempre Carlo Massarini ha scritto “Da lì alla fine, quando Peter sale la scala e si ricongiunge con lei, è un pianto di quelli che non devi neanche provarci, a fermarlo. Troppo bello. Quando ti ricapita? Sette minuti di intensità oltre il limite, da quanto tempo? È questo il genere di musica che devi andare a sentire.” Sì, è stato così, anche io ho pianto per tanta bellezza.
Gabriel e la Sardegna
Quando ascolto Dont’ give up penso al popolo sardo, al fatto che troppo spesso lo vedo arrendevole di fronte all’incapacità della politica, alle tante scelte sbagliate dei nostri decisori pubblici, al fatto che tanti servizi stanno venendo meno (istruzione, sanità, ecc.), ai tanti lavori non finiti e alla speculazione e all’occupazione imperante in ambiti militare, industriale, e alla progressiva sottrazione di aree a vocazione agricola, ecc. per via di colonizzatori senza scrupoli.
Non solo, ma un ultimo motivo che mi spinge a scrivere di quest’uomo, oltre che dell’artista, è che Peter ha preso casa in Sardegna, vicino Arzachena, e a questa terra è legato profondamente tanto che nel 2014 in occasione del nefasto evento del ciclone Cleopatra fece un appello in favore delle popolazioni colpite da tale disastro. E come non ricordare il concerto di un’ora e mezza regalato alla comunità di Arzachena nel palco allestito nella piazza del paese per sostituire Ron che all’ultimo momento diede picche? Lo fece come segno di gratitudine verso una terra e un popolo nel quale lui viene con la propria famiglia per disintossicarsi, non dimenticando affatto che quella gente lo ha accolto con calore e simpatia. Suonò gratis nella piazza del paese, in mezzo alla gente, non nello stadio, come si conviene a un uomo dai valori universali.
Ecco, tutti questi motivi mi fanno pensare che, se avessi i poteri, gli conferirei subito la cittadinanza sarda e saprei persino come coinvolgerlo per qualcosa di importante per questa terra e questo popolo. Sono certo che accetterebbe!
Gratzias meda Peter, aterus annus mellus!!!
In copertina Peter Gabriel in uno scatto di Piotr Drabik