Arbus, il Museo del coltello_di Tarcisio Agus
La storia di un popolo e di una comunità si mantiene viva attraverso l’artigianato ed in Sardegna ancora oggi l’arte del fare si tramanda da padre in figlio. Aspetto quest’ultimo che sta scemando, ma in alcune realtà è ancora presente. Nella comunità di Arbus questa ricchezza culturale la si può toccare con mano visitando il museo del coltello di Paolo Pusceddu. A Paolo si deve il recupero dell’arte del coltellinaio nel territorio, attività umana che si era persa nel tempo e che nella zona mineraria, per l’abbondanza di materia prima (acciaio e ferro), in particolare si recuperava lo scarto delle officine minerarie di Ingurtosu e Montevecchio, era diventata un importante punto di riferimento e di significative produzioni.
Nel 1996 l’eclettico artigiano, che apprese l’arte fabbrile dal padre Mario maestro fabbro maniscalco, mantenendo inalterata la tradizione, si formò sin da giovane età nel laboratorio paterno, dando nuova vita nell’antico opificio settecentesco all’arte del coltellinaio.
La visita dell’angusto e storico spazio artigianale, fa pensare che l’arte fabbrile dei Pusceddu sia nata ad Arbus molto prima del settecento. L’ipotesi è suggerita dal filone minerario di ossido di ferro, non considerato dagli imprenditori minerari dell’ottocento più dediti ai minerali di piombo e zinco, che trovasi non molto distante dalla vecchia officina in località “Sa menixedda” (la piccola miniera), presso i ruderi romani in località Santa Suia (Santa Sofia) databili al I-III s.d.C., da molti considerati parte di un ambiente termale. I romani diedero particolare impulso alla produzione del ferro, tra la fine della repubblica e l’inizio dell’impero.
L’antica officina è ubicata nel cuore dell’abitato presso un altro insediamento romano individuato dalla ricerca archeologica nella piazza San Lussorio, in prossimità dell’omonima fonte, allora elemento primario con il legno per la lavorazione del metallo. Quest’insediamento, che darà origine all’abitato di Arbus, pare abbia avuto un importante sviluppo in fase medievale, periodo in cui l’arte dei fabbri era particolarmente ricercata per le necessità del tempo, legate alla produzione degli utensili agricoli, ma anche alle armature e spade. Quell’antro oggi polveroso con la forgia, i ferri e l’incudine, ci permettono di immaginare l’antico operare con il crepitio dei carboni ardenti, il ritmo del martello sul ferro rovente o il fruscio del vapore sprigionato dalla lama incandescente immersa in acqua per la tempra. In quello spazio d’altri tempi Paolo riscopre il tipico coltello locale “S’arburesa”, frutto delle sue instancabili ricerche che daranno poi vita allo splendido museo del coltello. “S’arburesa” si distingue per la sua forma panciuta a mezzaluna, ampiamente utilizzata nel mondo pastorale e venatorio per la sua funzionalità. Era il compagno dell’allevatore e del cacciatore perché necessario per lo scuoio degli animali e del cinghiale grazie all’ampio filo della sua lama e la sua maneggiabilità, data dalla robusta e ricurva impugnatura del manico monoblocco. In antico “S’arburesa” veniva realizzata anche in un formato più piccolo, non per scuoiare i piccoli animali, ma bensì per sminuzzare il cibo per le persone anziane che immancabilmente perdendo i denti avevano difficoltà a masticare, per tale ragione fu denominata “S’arrasôia de su nonnu”, il coltello del nonno.
Lasciando il mummificato laboratorio si entra nella sala dei gioielli, perché Paolo raccogliendo le vecchie testimonianze e le sue originali produzioni nelle teche li fa splendere, alcuni brillano di luce propria, come la sua meravigliosa “Arburesa” che narra, scolpita sulla lama, la natività del Signore da una parte ed il cammino dei Re maggi dall’altra. Oppure S’arrasôia in damasco (Tecnica presa in prestito dalla tessitura o dall’arabo “damas”, che significa fluido, come i movimenti d’acqua), la lama viene realizzata con due tipi di acciaio che vengono sottoposti a innumerevoli piegamenti sino ad ottenere l’effetto desiderato, come nel caso della lama, quasi fosse un fossile, dove fa emerge una meravigliosa spiga di grano.
Paolo non è solo un coltellinaio ma un artista coltellinaio, perché oltre le lame da espressione anche ai manici con terminali tridimensionali espressivi, come la protome bi facciale del cinghiale prima e dopo la sua cattura. Così come fa brillare i vecchi cimeli narrandone le storie e vicissitudini, come il coltello di “Pabedda”, un pastore divenuto valoroso soldato e congedato per la perdita di una mano. La leggenda narra della sua trasformazione da gentiluomo a efferato bandito per l’uccisione del funzionario postale che le aveva comunicato la revoca della pensione di reduce di guerra. Divenne un uomo imprendibile nascondendosi fra le rocce granitiche di Arbus e Guspini. La storia del bandito nostrano ha sfumature e finali diversi ma tutti concordano che il soprannome “Pabedda” le fu dato per la bravura nel maneggiare il coltello. “Pabedda” in sardo indica la cicatrice che lasciava il vaccino del vaiolo sul braccio, a significare presumibilmente che il bandito maneggiava il coltello meglio di un bisturi.
Lo scrigno di Paolo è ricco di storie di uomini e d’uso dei suoi preziosi, alcuni rispecchiano la sua innata spensieratezza o la sua irriverenza, come i due grossi coltelli da guinness dei primati, il più grande ed il più pesante coltello al mondo o il più piccolo chiamato “Virtute I”, andato sullo spazio.
L’aggirarsi nel museo con la sua sapiente guida ci permette di scoprire un’altra caratteristica dell’eclettico coltellinaio arburese, l’arte fusoria, praticata nei luoghi di miniera già in fase romana e ripresa dai maestri medievali, che della galena ricavavano il piombo e l’argento. Il piombo oggi considerato materiale marginale, perché sostituito in molte produzioni dalle plastiche, non lo è per Paolo. Grazie alle sue mani e la sua spiritualità ha plasmato il ferro e il cemento ricoprendolo con una accurata cesellatura di lastre di piombo da cui sono emersi due capolavori: il Cristo crocifisso e morente di 2,8 m, su una croce lignea di 4 m, oggi custodito nella parrocchiale della Beata Vergine Maria Regina e la statua di San Giovanni Bosco, di quasi due metri d’altezza, esposta nel cortile dell’oratorio parrocchiale. Un mondo che Paolo conserva, fa vivere e rivivere nella sua amata Arbus, che merita più di una visita, perché ci consente di scoprire un artista poliedrico con delle opere che meriterebbero di far parte a pieno titolo del patrimonio culturale isolano.