Le antiche tracce minerarie dell’arburese_di Tarcisio Agus

Il filone Montevecchio, nel quale insistono le miniere di Montevecchio, Ingurtosu e Gennamari, venne considerato dall’archeologo – ingegnere francese Leon Gouin, il più bel filone che esiste in Europa, con la lunghezza di oltre 10 km. Il Gouin, che nel 1869 assumeva l’incarico di direttore della miniera di Gennamari, si dedicò in Sardegna anche alla sua attività di archeologo partecipando a numerose campagne di scavo in diverse parti dell’isola. In particolare lo attraevano i bronzetti e la loro composizione tanto che alcuni li fece analizzare da diversi laboratori a Cagliari, a Londra e Marsiglia. Era interessato a capire se il rame, usato in associazione con lo stagno per la loro realizzazione, fosse di origine isolana. Anche lui, come tanti ricercatori minerari del tempo, fra i diversi minerali metalliferi cercava il rame, certo per soddisfare la sua curiosità di archeologo, ma non solo, dalla metà dell’ottocento l’oro rosso cominciava ad essere ampiamente utilizzato nelle industrie elettriche e nell’agricoltura.
Evidentemente l’inconsistenza locale del rame per uno sfruttamento industriale distolse il Gouin archeologo a non soffermandosi abbastanza sul filone Montevecchio, perché a ponente, sul lungo litorale del mare di Sardegna, oggi possiamo affermare, per i segni lasciati dai primi uomini che frequentarono l’area dell’arburese, tra il filone e il mare, che forse in quell’area si insediarono anche i primi minatori.
Il sito Mesolitico (9500-6400 a.C) di rio Domu de S’Orku, oggetto di recenti campagne scientifiche guidate dalla professoressa Rita Melis dell’Università di Cagliari, oltre ad aver restituito i resti di tre inumati, due uomini ed una donna (Beniamino, Amsicora e Amanda), ci ha anche svelato che 10 mila anni fa i frequentatori del tempo del vasto bacino minerario conoscevano e raccoglievano l’Ematite, minerale ferroso (ocra rossa) utilizzato nell’antico rituale funerario di rigenerazione del defunto. In particolare l’ocra rossa copre completamente il cranio e le ossa di Beniamino, il primo scheletro mesolitico rinvenuto in Sardegna. Gli studiosi sono concordi nell’affermare che le genti del Mesolitico, come pure in parte anche i loro successori del Neolitico (5900-3500 a.C.), fossero costituiti in piccoli gruppi, da alcuni definiti bande o tribù, dediti in vasti territori alla caccia ed alla ricerca di cibo, ma non solo. Nelle loro peregrinazioni oltre al cibo, attingevano dalla geologia dei territori percorsi elementi utili nella vita quotidiana delle comunità. Nel nostro caso il sito di Domu de S’Orku, oltre che restituire chiari elementi di pasto, acquisiti attraverso la caccia del Prolagus Sardus (imparentato con con lepri e conigli), ha restituito prodotti di cava come l’ocra rossa, il diaspro e l’ossidiana. I primi si ipotizza provenire dalla miniera di “Capo Becco” a Carloforte, al tempo l’isola di San Pietro era raggiungibile facilmente più che oggi, nel Mesolitico il livello del mare, come risulta anche dagli studi della Prof.ssa Melis, era di – 20 m dell’attuale. L’ossidiana invece sappiamo essere presente sul Monte Arci e nelle sue deiezioni e dilavamenti verso il fiume Bellu in regione Sa Zeppara. Non è da escluderei la presenza di possibili elementi lenticolari di ossidiana nel vicino monte Arcuentu, dove comunque si trovano bellissimi frammenti di diaspro verde e selce, ampiamente utilizzati dagli uomini del Mesolitico.

La presenza umana, al disotto del lungo filone Montevecchio continua anche nella fase Neolitica, il litorale arburese è costellato da numerosi insediamenti dei quali oggi si conoscono sicure tracce l’ungo la costa, ma non si escludono presenze prossime anche al lungo filone, oggi occultate dal fitto bosco come le tracce di recente rinvenimento dell’insediamento in regione Croccorigas. In particolare si ricordano alcune delle numerose presenze sul litorale come quelle in regione Su Buttaiu, Funtanazza, Gutturu de flumini, punta Campu e Sali, Su pistoccu, presso l’insediamento mesolitico di Domu e S’Orku a testimoniare una importante continuità di frequentazione, ma ancora presso l’area mineraria di Ingurtosu in loc. Sa rocca abruxiada e monti Sparau, S’Acqua durci, sino a Capo Pecora .
Pienamente in linea con la visione di numerosi studiosi, che attestano la presenza di abitati sparsi nel VI millennio a.C., in particolare lungo le coste della Sardegna.
L’aumento della presenza neolitica nel territorio arburese può esser giustificato dalla abbondanza di cacciagione, ancora oggi si mantiene il vasto areale del cervo sardo, ma non mancavano certo i cinghialie le pernici, per stare agli animali più noti. In questa fase storica sappiamo anche della nascita dei primi insediamenti stanziali, andati sempre più diffondendosi per i mutamenti sociali legati in particolare alle nascenti attività produttive agricole e di allevamento.
La stanzialità consentì lo sviluppo di arti e mestieri già nella fase Neolitica, nell’isola appaiono le prime tracce di manufatti metallici, a partire dal IV millennio a.C. In particolare si ricorda che nella grotta di Sa Korona di Monte Majore (Thiesi), classificata di fase Ozieri (4000-3300 a.C.), sono stati rinvenuti elementi metallici in rame e nella tomba 5 “Su Nuraxeddu” di Pranu Mutteddu (Goni) elementi di collana in argento. Nella parte sud dell’isola a Selargius, l’insediamento di Su Coddu-Canelles ha restituito manufatti in rame, argento ed un oggetto indefinito in piombo. Tutti elementi presenti nel lungo filone Montevecchio – Ingurtosu, in buona parte affiorante su tutta la sua lunghezza, per cui di facile ritrovamento e sfruttamento dai “minatori” neolitici. Se per il piombo e l’argento il filone disponeva di enormi se non infinite quantità di materia prima attraverso la galena, più complessa risulta la produzione di altri metalli compreso il rame, le quantità disponibili non erano di fattura industriale come per la galena, ma considerati i bisogni del tempo si può affermare che in certa misura soddisfavano le necessità delle comunità locali o forse anche più. Il rame in particolare, essenziale per la produzione del bronzo, si ricavava prevalentemente dalla Calcopirite (CuFeS2) presente nei cantieri di levante e Ingurtosu, mentre lungo il filone di Sanna-Telle si trovano gli ossidati di rame nelle Auricalcite, Azzurrite, Brochantite e Cuprite (Cu2O).
Purtroppo, per tutta la fase Neolitica, nonostante l’accertata presenza umana in tutto il bacino minerario arburese-guspinese, non si è in grado di dimostrare la presenza di antiche escavazioni o semplici raccolte sui filoni emergenti, per la totale mancanza di ricognizioni e scavi scientifici. Se rimane ancora nel buio questa fase storica, la ricerca mineraria, l’escavazione o la semplice raccolta è certa nella fase Nuragica successiva (1800 – 950 a.C.).
Età considerata dagli studiosi di grande espansione e di complesse attività compresa quella metallurgica, praticata sporadicamente da pochi addetti nel periodo precedente per diventare una vera e propria stabile attività produttiva.
Di questo periodo la prima debole testimonianza territoriale della conoscenza filoniana ci è stata resa dallo scavo della tomba di giganti di Bruncu Espis in regione di Funtanazza, indagata dal soprintendente archeologo Antonio Taramelli nell’aprile del 1925. Pur risultando perfettamente integra la tomba subì nuove utilizzazioni in fase punica e romana. Il riuso non avrebbe però celato le tracce di una antica comunità che utilizzavano le risorse minerarie locali, in particolare il Taramelli ci ricorda dei frammenti votivi in ceramica con saldature di colatura di piombo o il bracciale aperto in nastro di bronzo, con faccia esteriore ornata di linee racchiudenti un dente di lupo. Così come non mancavano frammenti di punteruolo ed aghi crinali in bronzo. Sicuramente l’altro elemento che destò una certa curiosità furono i blocchi di minerali, analizzati presso la miniera di Montevecchio, certificarono essere dei blocchi di galena con un tenore di piombo pari al 48,3% e argento pari a 0,15%. I ritrovamenti vennero classificati come galena comune proveniente dal filone Montevecchio. Il Taramelli per quanto non fossero stati rivenuti strumenti di scavo ritenne quei blocchi metalliferi fossero un ricordo del defunto o dei defunti che ben conoscevano la vita delle escavazioni minerarie. Un altro elemento che ci induce a credere che gli abitanti dell’antico bacino minerario arburese fossero degli abili metallurgici è dato dal ritrovamento di pezzi irregolari di bronzo meglio noti come Aes Rude nel villaggio di Terra Sebis, lungo la provinciale per Funtanazza, che l’Harvard University di Cambrige nel 1997 datava al VI s. a.C.
Nell’interessante relazione in lingua inglese si legge: ”Questi ritrovamenti indicano una precedente attività pirometallurgica con la presenza di un centro di produzione di metallo molto vicino ai giacimenti di minerali metallici”. Così termina l’articolata analisi: ”Le differenze tra le Aes Rude rinvenute in altre zone d’Italia e quelle di Terrasebis sono dovute alle loro composizioni chimiche e strutture microchimiche molto diverse, che hanno permesso di classificare questi materiali nei seguenti gruppi:
• rame quasi puro, con inclusioni di solfuri di rame-ferro e manganese;
• materiali di rame ad alto contenuto di ferro caratterizzati da grandi alfa sferoidi ricchi di ferro (20-40 µm), in cui sono disperse particelle di rame molto piccole e con calcocite che bagna preferenzialmente le fasi di ferro metallico;
• materiali di rame ad alto contenuto di piombo, con inclusioni di solfuri di rame disperse nel piombo;
• rame ad alto contenuto di piombo-ferro, la cui microchimica è complessa per la presenza di diversi tipi di inclusioni di solfuri e particelle di ferro metallico;
• lega di piombo-stagno (20-25% in peso) caratterizzata da isole di stagno (100-200 µm) decorate da piccole inclusioni di ossido di rame.
Inoltre, è stata condotta un’analisi degli isotopi di piombo per i minerali metallici del bacino di Montevecchio e per l’Aes Rude rinvenuto a Terrasebis.
I risultati per i minerali metallici sono in buon accordo con la letteratura e, in quinto luogo, i dati per l’Aes Rude suggeriscono una produzione locale. I risultati sopra citati indicano che diversi tipi di Aes Rude venivano prodotti contemporaneamente a Terrasebis e che la produzione di rame al piombo non ha sostituito la pratica di fabbricazione di rame altamente ferruginoso, ma entrambi venivano prodotti contemporaneamente”.
Gli interessanti frammenti sono considerati anche un tipo di pre-moneta romana, in uso fra le popolazioni del centro Italia e Roma.
Un’altra importantissima testimonianza, forse attualmente la più significativa della produzione metallifera non solo nell’arburese, è dato dal carico nuragico recuperato nello spazio di mare di rio D’omu de S’Orcu, che testimonia ancora una volta la continuità di frequentazione in epoca nuragica del sito Mesolitico. Il carico che ha restituito materiali diversi di piombo, stagno e rame, non ha ancora dissipato del tutto il dubbio se trattasi di materiali di importazione o prodotti locali. A tal fine è importante e pone interessanti punti fermi la stessa relazione dell’Università Inglese che ha avuto modo di studiarne gli aspetti mineralogici e metalliferi del ritrovamento: “I lingotti di piombo e stagno raccolti sono caratterizzati da forma diversa, lastre di forma piano convessa e abbastanza rettangolare di peso compreso tra 1 e 18 kg. Vale la pena notarlo rarissimi sono i ritrovamenti di metallo di stagno, in Sardegna e altrove, e rarissimi i lingotti di stagno anche nel bacino del Mediterraneo. Infatti, i lingotti di stagno o altri oggetti metallici di stagno a noi noti, sono stati rinvenuti solo in pochi siti come Port-Vendres (Francia), lungo la costa della Palestina, in Sardegna nei pressi di Capo Bellavista e ora alla Domus’ E Sorku. La composizione chimica dei lingotti di piombo hanno dimostrato che il contenuto di stagno varia dallo 0,85% in peso a circa il 12,4%, lo zinco dallo 0,02 allo 0,81%, antimonio dallo 0,30 allo 0,80%, argento, rame, manganese, ferro e il bismuto sono inferiori allo 0,4%. È caratterizzata la struttura microchimica dei lingotti di piombo dalla presenza di particelle di stagno ad alto contenuto di rame il cui diametro varia da 1 a 4 Jim. La composizione chimica dei lingotti di stagno è caratterizzata da un contenuto di ferro pari allo 0,3-0,4% in peso e basse quantità di altri elementi. La presenza di una grande quantità di ferro ha indotto la formazione nei lingotti di stagno delle fasi FeSn2 e FeSn, a dimostrazione di un rapido raffreddamento dei lingotti dopo la fusione. Al fine di localizzare le risorse di minerale metallico sfruttate producendo i lingotti di piombo e stagno, per il metallo è stata effettuata l’analisi degli isotopi del piombo manufatti da confrontare con i dati dei giacimenti di minerali di piombo e stagno. Sfortunatamente, i dati per questi ultimi non sono completi in letteratura, e alcuni importanti giacimenti di stagno della Spagna e la Sardegna non sono ancora stati studiati. Con questo obiettivo in mente sono stati realizzati i giacimenti di minerale di stagno della Sardegna campionati e determinati i rapporti isotopici del piombo. I giacimenti di stagno della Sardegna si trovano entrambi sulla parte sud-occidentale dell’isola a Villacidro e a Punta Santa Vittoria e non lo sono distante dal bacino di Montevecchio, dove si produceva piombo e argento in epoca punica e romana è già stato stabilito”.


A noi è noto che oltre Villacidro e Punta Santa Vittoria, lo stagno si ricavava dalla cassiterite presente nella miniera arburese di Perdu Cara, dove erano associati anche i minerali di piombo, zinco, rame, cobalto, nichel e ferro.
Così termina l’importante relazione: “L’analisi degli isotopi del piombo per i lingotti di metallo ha dimostrato che i lingotti di piombo e stagno non sono stati ottenuti dalla fusione di minerali di piombo e stagno dal Regno Unito e potrebbero essere prodotti in Sardegna”.
Un ulteriore elemento dal quale recuperare lo stagno necessario con il rame per la formazione del bronzo ci viene suggerita da un capoverso dell’opera “Cronistoria della miniera di Montevecchio” dell’ingegner Giuliano Marzocchi quando afferma: “Nulla è pervenuto che attesti la presenza di minatori nuragici a Montevecchio. Costruzioni del tempo, anche di rilievo, non mancano nella zona; un indizio che i nuragici potessero conoscerla può essere considerato il fato che il bronzo dei loro “bronzetti” ha un certo tenore di piombo ed è noto che nelle parti alte e altissime di Montevecchio la galena era stannifera: non si può quindi escludere che lo stagno di quei bronzetti provenisse da quella galena, anche se allo stato delle conoscenze attuali nessun collegamento è possibile.” Evidentemente questa caratteristica della galena nostrana non era nota al direttore archeologo della miniera di Gennamari Leon Gouin, altrimenti le sue ricerche ed analisi già dal 1869 potrebbero aver avuto altro esito.
Certo per attestare con certezza che i bronzetti e gli importanti manufatti di Domu de s’orku siano stati realizzati in fucine locali ci vorranno ancora approfonditi studi, ma ci conforta anche il fato che le prime analisi archeologiche, in particolare date da una bipenne miniaturistica in piombo, decorata a punteggiato, parte del carico, viene datata al IX-VIII sec. a. C., fase nuragica dell’Età del Ferro. La presenza umana nel periodo è certamente attestata e documentata dal villaggio nuragico a monte dell’importante carico, presso l’attuale forestazione di Costa Verde, ed a ridosso della spiaggia, sono due tombe di giganti, che potrebbero svelarci ulteriori elementi per capire se nell’area arburese, oltre alla presenza degli ominidi del Mesolitico vi hanno operato, per la vastità dei giacimenti minerari, anche i primi minatori e fonditori nuragici. Gli elementi emersi e le analisi della Università Inglese, accarezzano comunque antiche presenze fusorie, dove la raffinazione dei metalli sembra per alcuni essere ancora in fasi embrionali o di ricerca e perfezionamento, nella relazione oltre al bronzo si cita anche la presenza dell’oricalco, un tipo di ottone costituito da una lega di rame al 75-80% e zinco al 15-20% e con piccole percentuali di nichel, piombo e ferro. Dal greco oréichalkos “rame della montagna”, il metallo rossastro era richiamato nel dialogo leggendario fra Crizia e Platone ove si narra che la sua estrazione proveniva dalla mitica Atlantide, per il suo colore veniva anche chiamato “rame d’oro” o “rame d’orato”.
Complimenti.❤️