Novembre 22, 2024

Il pellegrinaggio a Sant’Antonio di Santadi ad Arbus, fra miti e leggende_di Tarcisio Agus

0

Con il termine dell’emergenza pandemica, riprende nella sua forma più festosa e coinvolgente  una tra le  processioni  più lunghe della Sardegna, dopo quella di Sant’Efisio a Cagliari. Nel nostro caso non si tratta  di un percorso  verso il luogo del martirio, bensì presso la cappella eretta in onore di Sant’Antonio e in ricordo del suo ultimo cammino. Il primo sabato dopo il 13 giugno, giorno della sua celebrazione, il santo viene accompagnato, partendo dalla parrocchiale di San Sebastiano in Arbus sino alla   frazione di Sant’Antonio di Santadi.

La processione, che quest’anno festeggerà il 328° anniversario (la prima si svolse nel 1694, stando alle fonti), è da sempre legata alla leggenda di una piccola statua di Sant’Antonio di appena 60 centimetri, ritrovata fra gli scogli della frazione arburese. Si narra che dopo il ritrovamento l’importante simulacro venne portato nel piccolo borgo agrario abitato da arburesi che si prendevano cura di bestiame e terre  lontane dal paese circa  35 km.

Tale leggenda richiamerebbe le vicissitudini del santo portoghese, nato a Lisbona il 15 agosto 1195,  il quale, mentre si trovava missionario in Marocco, dovette imbarcarsi verso casa a causa di una grave malattia, ma la nave in cui si trovava naufragò sulle coste della Sicilia. Dopo la guarigione risalì a piedi l’Italia fino ad Assisi, dove incontrò San Francesco, per poi dirigersi a Padova, luogo della sua attività più significativa, e città in  cui morì nel 1231.

Il ritrovamento della statua del santo e l’edificazione della cappella in suo onore contribuirono alla modifica del toponimo del piccolo borgo da Santadi in Sant’Antonio di Santadi. Si ricorda ancora la caratteristica chiesa moresca con campanile a vela inglobato nella sinuosa facciata d’arte rurale spagnola, demolita nel 1949 per far posto all’attuale costruzione. La leggenda, in relazione alla processione, fornisce due ipotesi: la prima narra che la statua del santo fosse stata portata nella parrocchia di San Sebastiano ad Arbus per sostituirla con una  nuova, ma il giorno dopo la piccola statua scomparve per essere poi ritrovata al suo posto nella chiesetta della frazione agricola, fatto che pare si sia ripetuto più volte ed in ragione del quale si decise di portate il simulacro del santo in processione ogni anno dalla parrocchia di Arbus alla frazione di Santadi.

La seconda ipotesi è legata  alle scorribande barbariche a cui era soggetta la piccola comunità, a causa delle quali  gli abitanti fuggivano rifugiandosi ad Arbus,  portando con se la statua per paura di una possibile profanazione.

Il simulacro, sistemato nel cocchio, viene trainato da un giogo di buoi preparato per il lungo cammino, che percorre ancora oggi l’itinerario Antoniani attraverso Arbus, Guspini, l’antica Neapolis e Santadi. Il giogo vine adornato con il pane ed in particolare le corna dei buoi vengono abbellite con Su Coccoi (pasta dura decorata) e Su pai de saba (pane di sapa), un dolce tradizionale realizzato con la sapa e l’uva secca. Non mancano le corone di Frorinca (pervinca), un’essenza floreale dotata di proprietà benefiche e salutari secondo la tradizione popolare. Ad accompagnare il santo  ancora oggi sono Is Traccas, carri utilizzati solitamente per trasporti agricoli e per l’occasione trasformati in “case” mobili, tramite una copertura a botte foderata con preziose lenzuola, trapunte ed arazzi, per ospitare le famiglie, le vivande ed i pochi utensili necessari durante il viaggio e i tre giorni di permanenza a Sant’Antonio di Santadi.

Nelle Traccas sono rappresentati anche alcuni dei simboli del Santo  protettore dei viaggiatori, delle case, delle famiglie e delle promesse di matrimonio, tanto che nel lungo corteo non mancano mai  i carri destinati ad accogliere gli scapoli e le nubili fanciulle nella speranza di un prossimo matrimonio.

Questo lungo pellegrinaggio ricorda l’ultimo cammino del santo avvenuto su un carro di buoi il 13 giugno 1231, giorno della sua morte, percorso affinché venisse trasferito da Camposampiero, luogo del suo eremo, a Padova, dove desiderava morire, a circa 25 km di distanza.

Il pellegrinaggio a Santadi, che ancora celebriamo con una nutrita schiera di devoti che accompagna il santo per quasi 12 ore di cammino, potrebbe avere un’origine molto più remota rispetto al 1694, in quanto l’area di Santadi  coinciderebbe con l’ubicazione del tempio   dedicato al Dio nuragico del  Sardopatoris fanum,  individuato dal geografo romano Tolomeo nel II secolo d.C  fra le città di Othoca e Neapolis sull’altipiano di Capo Frasca. Da sempre l’ubicazione tolemaica ha suscitato la curiosità dei più illustri studiosi sardi e non solo, e tanti si sono cimentati nella ricerca del tempio nuragico sul predetto promontorio ma, non trovandone i resti, abbandonavano ogni ipotesi.

La frenesia dell’indagine ottocentesca si è attenuata con il  recupero e la ricostruzione del tempio punico romano di Antas a Fluminimaggiore negli anni 60, ubicato lungo il percorso Antonini che da Neapolis, attraverso Guspini ed Arbus, raggiungeva la regione di Metalla a Fluminimaggiore. In quest’ultima regione non sono evidenti, però, i resti di un tempio nuragico, sebbene nelle vicinanze  sia presente una necropoli nuragica. Molti comunque lasciano ancora aperta la possibilità che presso Santadi possa ritrovarsi il luogo di culto indicato da Tolomeo, mentre quello di Antas potrebbe essere stato eretto  e dedicato al Dio dei sardi (Sardus Pater) per ingraziarsi le popolazioni nuragiche del territorio costrette a lavorare nelle miniere.

Lo stesso La Marmora, che vide i ruderi di Antas nel 1836, ipotizzò che il tempio fosse un santuario extraurbano  della città mineraria di Metalla, ma nel 1859 si distolse da questa  idea a seguito del ritrovamento di un frammento di colonna miliaria avvenuto a Neapolis, nella zona di ponente posta ad est  del promontorio della Frasca, in cui si menziona una via che condurrebbe ad un sito il cui nome, parzialmente conservato, termina in “ellum”,  che il La Marmora proponeva di integrare con [sac]ellum, (tempietto).

Altri ricercatori invece sostenevano che si trattasse del termine [Us]ellum, ovvero la via per Usellus. Certo è che il Conte Alberto La Marmora nel suo Itinerario dell’isola di Sardegna,  affermava: “La principale regione della Frasca porta il nome Santadi ed il fiume che sbocca non lungi di la, anticamente aveva il nome di Fiume Sacro: la sua imboccatura è detta da Tolomeo Sacri Fluvii ostia. Da ciò conchiudo che tutto questo territorio era sacro dedicato a Sardo Padre che aveva il suo tempio sopra il promontorio.”

Il toponimo Santadi  viene utilizzato anche per indicare il pianoro di Capo Frasca detto Pianoro di Santadi, così pure lo specchio d’acqua presso il piccolo agglomerato agricolo, chiamato Stagno di Santadi, quasi a richiamare una vasta area “Santa”. Alcuni studiosi attribuiscono al  nomeSantadi origine punica, con derivazione dalle parole “Sin”, ovvero luogo, e “Duadi”, acqua, ad indicarne l’abbondanza del prezioso elemento.Tornando indietro nel tempo è possibile rinvenire il termine “Sin” nella mitologia babilonese, in riferimento al Dio della luna e degli elementi naturali ad essa connessi, venerato dall’Asia occidentale  e dalla Mesopotamia  fino alla Palestina e alla Siria. “Sin” corrisponde al sumero “Nanna”, termine quest’ultimo che in Sardegna  ritroviamo  nel detto “Su carru de Nannai” (il carro del Dio), riferito al fragore dei tuoni durante i temporali.

Il linguista Massimo Pittau, in relazione al villaggio di Santadi nel Sulcis, ipotizza la derivazione del  toponimo da Santa Ada, vergine martire di Catania vissuta nel  III secolo dopo Cristo.

Diversi elementi, quindi, inducono a pensare che Sant’Antonio di Santadi rappresenti un luogo in cui la presenza  sacra fosse di casa sin dal periodo nuragico, per poi mantenersi in fase punica e romana  fino ai nostri giorni,  e che potesse essere meta di pellegrinaggio già molto  prima del 1694.

L’altopiano di Santadi potrebbe essere assimilato ad una Ziggurat naturale (quella di Monted’Accoddi a Sassari, ne rappresenta una artificiale). Il termine Ziqqurat deriverebbe dalla parola Zacura, che nell’antica lingua mesopotamica significa “luogo alto”, punto di incontro fra cielo e terra, “Collina del cielo”, o ancora “Montagna di Dio”. Queste costruzioni, che furono il  modello per le piramidi egiziane, si diffusero in Mesopotamia sin dal III millennio a.C. in regioni prive di alture; molti studiosi sono del parere che le Ziqqurat  supplirono all’assenza delle montagne, col fine di stabilirvi la residenza del Dio.

In molteplici mitologie è presente una montagna sacra: il Pianoro di Santadi  è formato da un costone  scosceso  di non facile accesso su tre lati, ben visibile dal mare e da terra, la cui sommità pianeggiante è sostanzialmente pietrosa e cespugliata e vi si trovano piccoli stagni stagionali (Paulis). Nella porzione sud – est dell’altopiano si trova l’unico nuraghe, noto come nuraghe Priogosa, che si erge a quota 72 metri dal mare, e potrebbe rappresentare l’edificio del tempio. Il monotorre è il simbolo della civiltà nuragica e spesso veniva riprodotto sotto forma di modello d’altare in molti nuraghi, nei grandi santuari e nelle ampie “capanne delle riunioni”, cosi come  nella statuaria di “Monti prama”. A quaranta metri del nuraghe si trova un pozzo presumibilmente  quadrangolare che difficilmente potrebbe contenere acqua lustrale, vista la spessa formazione basaltica del pianoro, mentre potrebbe essere il sacello, come il Tofet punico, che raccoglieva le ceneri dei riti del tempio che venivano poi riutilizzate con funzione rituale nelle comunità nuragiche dell’isola. Tale usanza potrebbe essere ricondotta a quella cristiana per cui le ceneri,  ricavate dalla combustione di rami d’ulivo benedetti durante la domenica delle palme, vengono cosparse su capo e fronte dei fedeli.

Inoltre sul pendio della montagna, a quota 60 metri,  sotto la corona rocciosa in cui vi era l’unica via d’accesso all’altopiano troviamo un agglomerato nuragico, noto come Nuraghe Scabixi, dotato di un sistema bi torre (una torre a N.O e l’altra a S.E), che potrebbe costituire la sede dei sacerdoti preposti ai riti, come nelle Ziqqurat mesopotaniche.

A sud, dove è possibile risalire dal mare, si trova “S’enna de s’Arca”, letteralmente “Porta dell’Arca”. Tale denominazione richiama il racconto biblico del patriarca Noè: la nostra penisola potrebbe esser stata paragonata all’arca mitologica, essendo cinta  dal mare su tre lati.

Attualmente non ci sono elementi scientifici per dimostrare queste teorie, ma varrebbe la pena indagare ancora. Infatti il tempio del Sardopatoris fanum, risalente all’epoca nuragica, non potrebbe configurarsi come quello di  Antas, dotato di colonne e di chiara ispirazione romana. Sembra più probabile che tale santuario avesse una struttura molto più semplice, come quella del nuraghe  Priogosa, che svetta nel pianoro di Santadi senza ostacoli, come ideale collegamento tra cielo e terra.

About The Author

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *