Il turismo possibile a Guspini_di Tarcisio Agus
Nell’ambito dell’ormai rinomata rassegna culturale “Notti Rosa”, che si tiene a Guspini dal 5 al 30 agosto, su proposta dall’associazione di imprese “Centro Commerciale Naturale Apice”, in collaborazione con la Regione Sardegna ed il Comune di Guspini, si è tenuta, mercoledì 5 luglio, nel suggestivo scenario crepuscolare della Piazza XX settembre, al cospetto della maestosa facciata catalana del duomo di San Nicolò vescovo, il primo appuntamento con un incontro dibattito sul tema “L’economia e Turismo Insula”. Sono interventi: la commercialista, Federica Caria, nonché manager di rete, presidente “Confcommercio Green“ della circoscrizione Campidano e delegata per Cagliari di “ASSORETIPMI”; Ivone Concu, imprenditrice, esperta in Economia Manageriale e fondatrice di “Sardinia Destination Weddings” al servizio dei professionisti del matrimonio e Sandro Usai, fondatore di Ablativ, esperto di turismo, accessibilità e comunicazione istituzionale pubblica. Ad allietare la serata è stato il duo “Menestrellafemminista”, composto da Nicoletta Salvi ed Antonio Merola, che hanno presentato brillanti e noti brani di musica popolare, con testi rivisitati, e vivaci tarantelle salentine.
Ha aperto i lavori Graziella Caria, che ha spiegato il titolo ed in particolare perché dell’accostamento “Insula” nel cotesto economico turistico. Insula fa riferimento alla casa romana, mantenutasi a partire dalla fase repubblicana e proseguita poi nella sua forma tradizionale sino alla fase imperiale. Si trattava del primo esempio di edilizia popolare, oggi potremo dire condominio, con spazi di vita comune ed il piano terra riservato a magazzini, botteghe, taverne ed ai venditori temporanei di merci. Per rimarcare che anche la nostra comunità, sottolineava la Caria, è una ”Insula”, dove assieme è possibile dar vita all’economia locale e territoriale, anche attraverso il turismo. Le possibilità per questo settore sono tante, così ha esordito Federica Caria. Oggi non mancano le risorse, anzi sono cresciute, ma sono necessarie idee e ferma volontà nel proporre e perseguire i progetti. Sicuramente, ha ribadito la manager guspinese, vi è la necessità di fare rete. Il turismo da soli non si può fare, perché occupa un settore che richiede diverse professionalità e servizi. Ha anche sottolineato la necessità di uscire dallo stereotipo sardo del turismo balneare, perché trattasi di una parte minimale del prodotto turistico. Quello a maggior reddito oggi in Italia è il turismo culturale, che movimenta milioni di persone durante tutto l’arco dell’anno.
Calandosi poi nella realtà locale, a lei cara, e sulla quale ha iniziato la sua carriera manageriale nell’azienda turistica paterna, ha ribadito che anche a Guspini, nonostante non abbia il mare, il turismo culturale è possibile, non mancano certo gli elementi di richiamo: la vastità territoriale con i suoi nuraghi, l’antica città di Neapolis, la miniera di Montevecchio o i monumenti entro l’abitato (Duomo di San Nicolò, Santa Maria, Monte granatico ed il Giovanni Antonio Sanna, con la prossima apertura museale). Ha infine posto l’attenzione sull’ampia possibilità della creazioni di posti letto, in particolare con le case sfitte, ma interessanti risorse possono essere date dalle abitazioni tipiche che ancora si mantengono e rischiano di scomparire definitivamente. Insomma i margini e le potenzialità turistiche, come tutti i comuni della Sardegna, le possiede anche Guspini. Questo concetto è stato poi rafforzato dall’intervento di Sandro Usai, che ha snocciolato i dati di Guspini dello scorso anno, quantificato in 10.000 presenze, quasi la popolazione locale, che a suo avviso può e deve essere superato se i giovani e gli imprenditori, come detto dalla Caria, si pongono in rete. Per meglio far comprendere il suo concetto l’Usai ha illustrato il progetto a cui sta lavorando, in un comune interno che non ha sbocco al mare, Oliena. Quattro giovani imprenditrici laureate locali hanno deciso di non andar via ma di affidarsi al vasto patrimonio naturalistico, storico e culturale che il loro comune può offrire, come gli innumerevoli sentieri, alcuni di particolare bellezza naturalistica e paesaggistica, per arrivare al centro abitato ricco di tradizioni, storia, economia, gastronomia e prodotti tipici. Il turismo interno può favorire nuova economia, in particolare se si punta su un’accoglienza di livello con adeguate strutture alberghiere, fonte di maggior reddito ed occupazione. Interessante è risultato anche l’intervento di Ivone Concu, sarda doc, che ha portato la sua terra oltre oceano per farne conoscere le potenzialità e l’innata accoglienza, che si “sposa” pienamente con le sue proposte per un matrimonio da ricordare: in riva al mare, nei siti archeologici, nelle miniere o in tanti altri luoghi incantati dell’isola. Questa sua passione detta “Wedding” (nozze) sta prendendo sempre più piede anche in Sardegna, ed anche per questo settore è richiesta la costituzione in rete di imprese diverse, perché numerose sono le professionalità necessarie al buon esito dell’evento. In una sola giornata possono ricadere sul territorio dai 25 ai 50 mila euro ed in alcuni casi andare anche oltre, con un ulteriore ricaduta promozionale di immagine e di ritorno degli stessi coniugi o partecipanti alla cerimonia, mediamente costituiti da una trentina di persone. Un pensierino andrebbe fatto, non fosse altro perché Guspini dettine già due strutture alberghiere di rilievo, come “Sa Rocca” e “Tarthesh” che meritano un loro rilancio. Non mancano certo le “Location” i luoghi di particolare fascino emozionale, come per esempio la Miniera di Montevecchio, con il suo palazzo ottocentesco Sanna Castoldi ed i rispettivi cantieri minerari, ove rivivere l’epopea mineraria con gli sposi nelle vesti di Zely e Alberto Castoldi e gli invitati, come in un set cinematografico, nelle vesti dei caporali, capi squadra, forgiatori, meccanici, cernitrici, minatori, etc. Ma non solo, Guspini potrebbe offrire un matrimonio ancestrale dal titolo “Madre terra”. Con l’avvio del cerimoniale nel ventre della terra, come atto di rigenerazione, presso la galleria Anglosàrda, ove agli sposi potrebbero con i riti propiziatori consumare poi Su murzu, la colazione del minatore, costituita dal pane, formaggio e salsiccia che ogni invitato potrebbe prepararsi con Sa Guspinesa, coltello tipico locale, usato dai fanti sardi nella prima guerra mondiale e che in miniera, nel 1906, con il decreto Giolitti, venne fatto obbligo a tutti i minatori di mozzarne la punta, perché non diventasse strumento d’offesa, ma utile supporto per la fugace colazione. La cerimonia nunziale potrebbe essere poi celebrata al cospetto del monumento naturale di Cuccuru Zeppara, ove la forza della natura, tre milioni di anni fa si sprigiona con una nuova nascita: fratturando il deposito marnoso che l’opprimeva, il rovente magma si elevò lentamente dalle profondità della terra dando vita ad una formazione basaltica, costituita da imponenti colonne prismatiche esagonali, meglio note Canne d’organo. Dopo la cerimonia, prima del pranzo nuziale, dovrebbe esser d’obbligo la visita al monumento preistorico di Cort’ è Semùccu (Il fondo del sambuco) presso la copia dei menhir chiamati Perdas Longas, pietre lunghe. La legenda popolare narra siano la pietrificazione degli sposi in fuga, dovuta alle ire paterne della nobile sposa, invaghitasi del suo bracciante. I due menhir, rappresenterebbero le due più importanti divinità neolitiche sarde: osservati da nord a sud, il Dio Toro viene raffigurato attraverso un inequivocabile scultura fallica, mentre la Dea Madre, chiamata Sa sennorèdda (la piccola Signora), nel suo lineamento plastico richiama la figurina antropomorfa con copricapo della prima metà del V millennio a.C di Cuccuru is Arrius (Cabras).
La collocazione delle antiche divinità infisse nel grembo di madre terra, richiama un’altro rito ancestrale che nella vasta pianura guspinese si ripeteva, in particolare nei giorni del raccolto presso i Medàus, i territori con le case campestri utilizzate, in modo particolare, durante le semine ed i raccolti. Impossibilitati al rientro in giornata, per la distanza dall’abitato, molte famiglie vi stazionavano per più giorni, sino ad aver svolto tutte le pratiche colturali. Il momento più festaiolo era a giugno quando si raccoglievano le messi e nello stesso ambito si procedeva, nell’aia, alla trebbiatura. Questa attività richiedeva tanta manodopera ed impegnava braccia di tutte le età, per cui confluivano nel Medau diversi nuclei famigliari e amici, che collaboravano praticando l’innato rituale dell’aiuto reso (Aggiùdu Torràu). Ogni famiglia o persone avrebbe poi ricevuto reso il lavoro dato. Al culmine di questo importante evento sociale non poteva mancare il rito del pranzo comunitario detto Sa Pichiettàda (mangiare a pezzi). Il rito che si perde nella notte dei tempi, oggi lo ritroviamo riproposto nella preparazione del porchetto a Carràxiu, cucinato sotto terra. Nell’antichità e sino a metà del 1900, non tutti potevano permettersi il maialetto, perché l’usanza non era nel consumarlo come facciamo oggi, ma quello di ingrassarlo per avere l’importante provvista alimentare per l’intero anno. A Guspini si pratica ancora Sa Pichiettàda, ma senza il piato tipico che caratterizzava i partecipati incontri del passato, di cui si è perso il nome, ma si ricorda ancora la sua preparazione.
Costituito esclusivamente dalle carni degli animali da cortile, l’intricata pietanza si cucinava a Carràxiu. L’ultimo giorno del raccolto (Incungiài) in Medau, un piccolo gruppo di persone preparava Sa Pichiettàda. Di buon mattino si accendeva un bel fuoco alimentato con i legni dalle consistenti braci, come il leccio (Ixìbi) e l’aromatico lentisco (Moddìzzi). Le donne nel frattempo preparavano l’ancestrale specialità guspinese, costituita mediamente da quattro o più animali. Il tacchino fungeva da contenitore ed esso stesso prelibato alimento.
Svuotato dalle interiore ed eliminate testa e zampe, come in tutti gli altri animali, in successione trovavano giusta collocazione nel ventre del tacchino un’anatra, che a sua volta accoglieva un pollo, questo un coniglio e un tordo chiudeva la matriosca alimentare. Il tutto veniva salto e aromatizzato con il rosmarino e mirto, infine il tacchino veniva chiuso ed avvolto interamente con il mirto. Nel mentre il fattore preparava una buca di circa ottanta centimetri, capace di accogliere il prelibato piatto. Stendeva sul fondo una parte di brace, ricoprendola con uno strato di arbusti e foglie di mirto, sul quale veniva poggiato il tacchino ripieno (Impiôncu arreprêu). Un successivo strato di mirto e pietrame chiudeva l’arcaico forno, sul quale veniva poi posato il fuoco, che doveva stare acceso dalle tre alle quattro ore. Puntuale all’ora del pranzo si scoperchiava recuperando l’atteso contenuto, smembrato ed in pezzi, veniva ricoperto dal mirto in una sorta di macerazione. Nel frattempo si cuocevano alla brace tutte le interiora degli animali, ancora calde venivano salate e servite a pezzi, dando via, con l’uso esclusivo delle mani, allo spizzicare (Biccài), in attesa di gustare il piatto della tradizione contadina. Della portata, servita sui vassoi di sughero (Mobìzza), se ne apprezzava subito il profumo, anticipando il particolare gusto dato dalla miscellanea delle carni.
Il rosmarino e il mirto sono essenze spontanee di facile reperimento nelle campagne guspinesi, contribuivano a dar vita e sapore a Sa Pichiettàda, allietata da canti, balli e importanti bevute a Croccòriga, contenitori del vino ricavati dallo svuotamento ed essiccazione delle zucche.
Sa Pichiettàda non poteva non finire con il rito del taglio del torrone che i guspinesi esportavano in tutta la Sardegna sino alla metà del 1900. Il prelibato dolce, oggi diremo “Dessert”, realizzato con le mandorle ed il miele, veniva colato entro forme trapezoidali che mediamente raggiungevano i cinque chili, queste una volta rafferme venivano riversate sul tavolo posto al centro dei convenuti, e tagliato con la mannaia (Spadîu), per esser così consumato. Ancora oggi questo antico rito è possibile ammirarlo nelle bancherelle dei torronai che tagliandolo di fronte all’acquirente ne offrono un frammento, in segno augurale. La giornata potrebbe chiudersi sul “Monte Sacro” (Monti Mannu o Monti Babbu Mannu), che in fase cristiana venne intitolato a Santa Margherita, in ossequio alla lettera del papa Gregorio Magno, che nel 594 d.C., invitava il re dei barbaricini, Ospitone, a convertire i sardi che ancora ”vivono come animali insensati, non conoscono il vero Dio, adorano legni e pietre”. Questo perché sulla montagna, che sovrasta l’abitato di Guspini e spazia sulla vasta pianura del Campidano, risiedeva ed ancora risiede un monolite cranico da noi chiamato Sa rocca inquaddigada (la roccia a cavallo) e che richiama la divinità del Sardus Pater, il Dio guerriero nuragico. Immagine ripresa nell’asse romano, moneta di conio sardo del 59 d.C. a lui dedicata, e rappresentato dalla testa con corona piumata. Sino agli anni del 1950, il nostro monolite, era sormontato da una piccola roccia posta a capello o corona. Certo è che sulla montagna si praticavano riti ancestrali legati alla presentazione dei neonati alla divinità. Esiste ancora il percorso ascensionale che partendo dalla fonte Santa Margherita (chissà come chiamata in antico), con i riti lustrali e di purificazioni, raggiungeva poi un ampia roccia orizzontale luogo di propiziazione, chiamato ancora oggi Sa ròcca a bì baddànta is antìgusu (La roccia dove ballavano gli antichi), per terminare presso la divinità (Il monolite) al cospetto del quale le popolazioni indigene presentavano il loro primo nato per la benedizione. Non caso Santa Margherita è la patrona delle partorienti, il rito pagano venne poi assunto dalla cristianità che sulla montagna eresse, al di sotto del venerato monolite, una piccola chiesa a lei dedicata ove avveniva, con l’ascensione sino al 1700, il rito Incresiâi, presentare il bimbo nel tempio del Signore, e che ancora oggi si celebra il 22 febbraio, nel duomo di San Nicolò.
Insomma, un attento studio delle opportunità presenti nel territorio, magari in concorso con gli esperti intervenuti all’interessante serata, vista la manifesta disponibilità, potrebbe esser l’inizio di una nuova era, con i giovani ed imprese guspinesi che ponendosi in rete, come suggerito, potrebbero tentare la via di un’altro segmento economico che lo scorso anno, per difetto, pare abbia portato nelle casse dei guspinesi circa 750.000 euro. Ancora debole come ricaduta ma se incoraggiata, promossa e partecipata, potrà nell’immediato futuro dare numeri decisamente più interessanti, consentendo alle nuove generazione di rivitalizzare Guspini, che subisce inesorabilmente, come tanti altri comuni dell’isola, lo spopolamento e l’invecchiamento.