Novembre 23, 2024

Montevecchio: “Bonifica green”_di Tarcisio Agus

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In questo ultimo periodo è stato portato ancora una volta all’attenzione dell’opinione pubblica lo sversamento delle acque di miniera sulla spiaggia di Piscinas.

Il fenomeno è parte del sistema idrico sotterraneo della miniera di Montevecchio, che si articola, come i progetti di bonifica previsti, in Montevecchio Levante e Montevecchio Ponente.

Il tema dell’inquinamento non è certo di oggi, gravi danni ambientali vennero prodotti dalla miniera attraverso gli scarichi delle laverie di Rio e di Piccalinna, erette per la separazione dei minerali dallo sterile, che immancabilmente iniziarono a sversare sin dalle prime escavazioni industriali.

Stanchi delle torbide acque, che si immettevano direttamente nel rio  Montevecchio a levante, gli allevatori guspinesi nel 1877 insorsero contro la direzione mineraria, perché le acque nelle quali era consuetudine abbeverare le proprie mandrie stavano uccidendo i loro animali. Ma non solo, nel periodo invernale il fiume esondava a valle inondando i campi con le acque  ed i fanghi contaminati, che rendevano quelle lande completamente sterili di cui ancora restano vaste superfici. Le proteste coinvolsero anche l’amministrazione di Guspini, costringendo la direzione mineraria alla realizzazione di uno sbarramento a valle della laveria Principe Tomaso, appena inaugurata dallo stesso regnate il 19 marzo.

L’infrastruttura si rese necessaria per ricevere i materiali di risulta dei trattamenti ed evitare lo sversamento direttamente sul rio. Se con l’edificazione della diga veniva meno l’apporto delle acque inquinate, restavano i terreni resi sterili dalle contaminazioni e inutilizzabili sia per il pascolo che per la semina. L’ing. Castoldi, direttore della miniera, per calmare gli animi dovette risarcire allevatori e contadini, pare parte in denaro e parte con l’assunzioni dei figli maschi delle aziende coinvolte.

Non altrettanto avvenne a ponente perché la laveria Lamarmora, che scaricava direttamente i suoi reflui sul rio Irvi, così pure la laveria Sanna sul rio Roia Cani, non creavano danni alle aziende che erano del tutto inesistenti, per la natura selvaggia dei luoghi, tanto meno alle persone che non vi abitavano. Era soltanto il regno delle coltivazioni minerarie rappresentate dal pozzo Sanna, dal pozzo Amsicora nella regione di Telle e dal pozzo Fais nella regione di Casargiu, che conferivano i minerali da trattare nella laveria Lamarmora.

Pozzo Amsicora durante l’occupazione del 1991

Il tema dell’inquinamento, anche se tardi, si pose anche a ponete, sollevato dai tonnarotti di Flumentorgiu, che alla foce di rio Piscinas erano soliti calare la loro tonnara. Da tempo notavano il calo del pescato, che loro attribuivano agli scarichi del rio. L’alterazione delle acque e del fondo marino disorientavano il passaggio dei tonni, che da giugno a settembre transitavano sotto costa per riprodursi. La Montevecchio fu richiamata a eseguire un’opera di mitigazione attraverso l’ingiunzione  del 4 maggio 1940,“… per non intorbidire le acque della tonnara di Flumentorgiu ed impedire il passaggio dei tonni”, in quanto, pur avvertita fin dagli anni ‘30, tergiversava.  I lavori si conclusero l’anno successivo, con la costruzione di una diga con paratie a scomparsa, che venivano chiuse da aprile sino al termine delle mattanze. Lo scarico delle acque e dei fanghi era permesso per il resto dell’anno, sino alla nuova stagione di pesca.

Con l’abbandono dell’attività estrattiva, i due versanti della vasta miniera di Montevecchio sono stati interessati dalla risalita delle acque accumulatesi in sotterraneo, che interessano circa 300 km di vuoti e gallerie presenti in tutto il bacino della miniera di Montevecchio.

Dalla Relazione Tecnica Preliminare, a firma di Enrico Contini del 2010, su “Il Drenaggio Acido di Miniera (A.M.D) Del Distretto Minerario Fluminese, Arburese e Guspinese”, redatta per progettare gli interventi di bonifica idraulica, si rileva la situazione dei livelli d’acqua accumulatisi sui più importanti pozzi di estrazione dopo 20 anni dalla chiusura:

Montevecchio Levante.

Pozzo Sartori, sta a quota +279,25 s.l.m. e la sua più profonda galleria si trova al XVIII livello a – 188 s.l.m. Il livello piezometrico dell’acqua si attestava a quota + 175,3.

Pozzo Sant’Antonio, quota +280,50, raggiunge la profondità con il livello XVI a – 124,61. Il livello piezometrico si attestava a quota a quota + 175,3.

Montevecchio Ponente.

Pozzo Sanna, quota + 265,48, con il suo più profondo livello XVIII raggiunge i – 188 s.l.m.

Il livello delle acque raggiunge + 159,3 s.l.m.

Pozzo Amsicora, quota + 260,80, la sua massima profondità raggiunge con il livello VIII i – 33,70. ed il livello delle acque +158,8.

Pozzo Fais, quota +187,0, raggiunge la profondità con il VI livello a – 22,00.

Il livello delle acque è a + 158,2.

Il pozzo Fais è all’estrema concessione occidentale di Montevecchio e con la sua galleria Fais, il punto più basso; l’acqua a quota + 158,2 fuoriesce naturalmente.

Questo primo esame permise di rilevare una differenza piezometrica tra i pozzi di levante e quelli di ponente di circa 16-19 metri, dovuta alla mancata comunicazione tra i due versanti attraverso la galleria Estella-Rolandi; sebbene prevista al Progetto Faina, questa comunicazione non venne mai realizzata.

A Montevecchio Levante, dopo la chiusura della miniera, l’inquinamento di rio Montevecchio ha ripreso vigore. Le acque torbide ed inquinate dai metalli pesanti provengono dal percolato della diga fanghi, dove sono abbancati 5 milioni di metri cubi di materiali di risulta delle lavorazioni della laveria “Principe Tomaso”; dal drenaggio della galleria Ignazia del pozzo Sant’Antonio, a quota +250,54; dal condotto “Mercantili”, che funge da collettore dei piazzali di levante e dal pozzo Faina, presso la diga fanghi.

Rio Montevecchio

A Montevecchio ponente il problema si manifesta prepotentemente nel 1997, con lo sversamento delle acque del sottosuolo che avevano superato la quota della galleria Fais, fuoriuscendo naturalmente.

Fondamentalmente nelle acque, sia a levante che a ponente, sono presenti le alterazioni dovute al contatto delle acque meteoriche con le parti mineralizzate residue, che ci restituiscono parametri critici come l’alterazione del pH (carattere acido o basico delle soluzioni), e la presenza negativa di Zn (Zinco), Pb (Piombo), Fe (Ferro), Mn (Manganese), Cd (Cadmio), Ni (Nichel), Co (Cobalto) e  As (Arsenico).

Per risolvere o arginare la pericolosa situazione venne così ipotizzato un impianto centralizzato da realizzare a Casargiu, che raccogliesse tutte le acque di ponente emergenti al pozzo Fais unitamente a quelle di Montevecchio levante; queste ultime, attraverso un impianto di sollevamento posizionato a Sciria, attraverso una condotta lunga 3700 metri, di cui 2200 m forzata e 1300 m libera.

La relazione di Enrico Contini avrebbe dovuto essere la guida per la realizzazione dell’impianto di decontaminazione delle acque del bacino Montevecchio, ma evidentemente non tutto venne seguito alla lettera in quanto la Provincia di Cagliari, che finanziò l’opera nel 2006, ai sensi del D.M. 471/1999 (criteri, procedure e modalità per la messa in sicurezza, la bonifica ed il ripristino ambientale dei siti inquinati), non prese in considerazione le acque di levante limitandosi a progettare un impianto per il trattamento delle sole acque di Montevecchio-Casargiu.

L’impianto realizzato all’uscita della galleria Fais venne concluso nel 2009 e collaudato dall’Ing. Muntoni, ma dalla relazione redatta dal Per. Ind. Martino Dessì della società Igea S.p.a, si rileva che: “l’impianto non è collaudabile in quanto non assolve in alcun modo, né rispetto alle portate da trattare né rispetto alla qualità dell’effluente in uscita,..”; inoltre il collaudo mise in luce l’inefficacia della metodologia adottata “nella scelta del processo (precipitazione dei metalli come idrossidi) per l’abbattimento dei solfati, che nelle acque di Casargiu superano abbondantemente i 3000 mg/l”. Altro elemento critico, come risulta dalla relazione del Settore Sperimentazioni e Gestioni Impianti dell’Igea S.p.a, sono i costi di gestione stimati; per le prove eseguite nel 2009, dal 14 al 19 settembre, con impianto in esercizio 24 ore su 24, furono di 70.725,66 euro.

A seguito delle diverse difficoltà e ormai con l’impianto abbandonato, l’Igea S.p.a promosse delle ricerche sperimentali per individuare una nuova metodologia di trattamento e decontaminazione delle acque. In particolare nel 2011 venne avviato un rapporto di collaborazione tecnica con la società olandese PAQUES e la partecipazione di DIGITA (Dipartimento geoingegneria e tecnologie ambientali) dell’università di Cagliari. I primi test di sperimentazione incoraggiarono Igea S.p.a a proseguire l’approfondimento per cui venne chiesta alla società olandese la presentazione di una proposta tecnico-economica e relativo programma dei lavori, con definizione dei parametri, dei costi da sostenere in fase di investimento e gestione dell’impianto di trattamento.

Dalla relazione di Martino Dessì del 21.05.2012 si evince la proposta che riguarda l’attivazione di una fase sperimentale di due mesi, al massimo tre, da concordare con Paques, mediante un suo impianto pilota da ubicare a Casargiu: operazione necessaria per acquisire  informazioni e redigere il progetto definitivo. Dopo diverse formalità fra gli enti ed il comune di Arbus, l’Igea sottoponeva il 12 settembre 2012 la bozza di contratto relativo agli impegni per il test. Sembrava procedere tutto per il meglio, ma, forse per un ripensamento, visto che la sperimentazione per due tre mesi ammontava a 34.000 euro, tutto si fermò.

L’ultimo tentativo di dare vita ad un impianto di trattamento fu pensato a pozzo Sanna, del quale il tecnico Dessì ha ricostruito gli eventi: 

In seguito Igea sviluppò una ulteriore proposta che prevedeva la depressione del livello dell’acqua all’interno della galleria Estella – Rolandi mediante il posizionamento di una pompa all’interno della struttura del pozzo Sanna, che avrebbe dovuto sversare nel Rio Roia Cani. Le caratteristiche chimico fisiche dell’acqua di Sanna, sono sempre state qualitativamente, di gran lunga, migliori rispetto a quelle di Fais. L’ipotesi progettuale prevedeva una eduzione progressiva (partendo da 5 l/sec, successivamente 10 l/sec, ecc) con un monitoraggio continuo (parametri chimici, portate, ecc) sino a trovare un punto di equilibrio tra le portate minime in fuoriuscita da Fais e la qualità dell’acqua pompata da Sanna. L’obbiettivo era quello di minimizzare, almeno in parte, la contaminazione a valle di Fais. Questa ipotesi venne rigettata dalla Provincia in quanto non in linea con la normativa sugli scarichi. Poco tempo dopo venne presentata una proposta progettuale da una società tedesca (Clariant) che prevedeva un trattamento passivo (su materiali prodotti da loro) delle acque di Sanna, utilizzando le strutture esistenti (addensatori, vasche, ecc). Anche questa proposta progettuale, così come quella di Paques, nonostante si fosse arrivati alla definizione delle fasi progettuali, così come anche delle competenze, non venne attuata e, ancora oggi, non conosco le ragioni! Personalmente ritengo che il problema non sia di facile soluzione, le portate in gioco (in circa 10 anni di monitoraggio sono state misurate più volte portate anche superiori a 40 l/sec) il livello dei contaminanti (soprattutto i Solfati), necessitano di soluzioni impiantistiche complesse, che necessitano di investimenti notevoli (l’impianto ipotizzato da Paques prevedeva un investimento di circa 4.5 milioni di euro!). Ritengo però necessario impegnarsi ulteriormente per sviluppare ulteriori approfondimenti (vedi gli ultimi studi di interesse sulle terre rare anche sulle acque). Personalmente ho sempre ritenuto opportuna anche una indagine, in sottosuolo, nell’ultimo tratto della galleria Estella – Rolandi (la distanza tra i due pozzi è di circa 3000 metri), questo potrebbe consentire di avere un quadro delle “venute” principali, e quindi della situazione generale ancora più chiaro. Inoltre bisogna tener conto che una delle cause principali del problema in argomento, riguarda i vuoti di coltivazione che fungono da convogliatori delle acque piovane che, in seguito ad una breve percolazione, arrivano nella galleria per poi fuoriuscire nel punto di maggior depressione che è pozzo Fais.

La difficoltà maggiore delle due bonifiche previste è senza dubbio il costo dell’impianto e l’alto costo di gestione del trattamento di lungo periodo, che nessun Ente pubblico è disposto a farsene carico.

La relazione e lo studio di tre possibilità gestionali redatto e sperimentato da Enrico Contini è più che mai eloquente, pur privilegiando il primo caso:

La relazione dell’Igea S.p.a. apre ad un nuovo impianto di trattamento delle acque e dei fanghi.

Nell’attesa che ciò avvenga paiono interessanti alcuni risvolti che meriterebbero approfondimento e fanno emergere, ancora una volta, l’agire della natura più determinata dell’uomo. Basterebbe assecondarla e supportarla per trarne importanti benefici, non solo ambientali ma forse anche economici.

Quest’ultimo aspetto che ci riserva l’inquinamento sul Rio Irvi, è dato dal processo naturale di bonifica del fiume dei veleni; in questo contesto ambientale è stato infatti rintracciato un organismo fotosintetico unicellulare, che fra le acque torbide ed inquinate è riuscito ad adattarsi e vivere.

Questa microalga è risultata una specie nuova per la scienza (Malavasi et al. 2016_ PLoS ONE 11(3): e0151137. DOI: 10.1371/journal.pone.0151137).

La sua presenza è stata rinvenuta a seguito dei campionamenti sul Rio Irvi, effettuati dalla dott.ssa Veronica Malavasi tra il 2010 e  2012, nell’ambito del progetto “Ricerca e coltivazione in vitro di esemplari di Microalghe presenti in Sardegna, utilizzabili nei settori del ripristino Ambientale e Biotecnologico”, finanziato dalla Regione Autonoma della Sardegna, PO FSE Sardegna 2007-2013 L.R.7/2007 “Promozione della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica in Sardegna”, in collaborazione con l’IGEA S.p.A.

Lo studio che si era intrapreso nell’area di Montevecchio-Ingurtosu, specificatamente nel Rio Irvi gravemente inquinato da metalli pesanti tra cui Fe, Mn, Zn, Cd, Co, Ni e Pb, si basava principalmente sull’approfondimento delle conoscenze dei meccanismi di adattamento/tolleranza/difesa contro i diversi metalli rinvenuti nelle acque di questo fiume.

Coccomyxa melkonianii SCCA 048 appartiene alla classe delle Trebouxiophyceae ed è un’alga estremofila in quanto è in grado di vivere in acque contaminate da elevate concentrazioni di metalli pesanti (Malavasi et al. 2016) e di tollerare ampi range di pH, da 4.0 a 8.0 (Soru et al. 2019_ Extremophiles, 23 (1): 79-89. doi: 10.1007/s00792-018-1062-3.).

Negli anni sono stati fatti diversi studi atti a caratterizzare quest’alga dal punto di vista metabolomico e si è osservato che è un ottimo candidato per la produzione di prodotti ad alto valore aggiunto.

La biomassa microalgale è utilizzata come supplemento nutrizionale, in quanto dotata di un’ampia gamma di importanti composti ad alto valore aggiunto che trovano applicazione in diversi settori tra cui nutraceutico, cosmetico, ambientale e nell’industria alimentare. Inoltre, durante le indagini per valutare la capacità di C. melkonianii SCCA 048 di crescere in terreni di coltura con diverse concentrazioni di solfato di ferro, si è osservato che sotto concentrazione di solfato ferroso molto elevata, il tasso di crescita della microalga è diminuito, ma ha comunque continuato a crescere, dimostrando che C. melkonianii può tollerare condizioni ambientali molto difficili, come le condizioni delle acque di drenaggio delle miniere (https://www.sardegnaricerche.it/index.php?xsl=370&s=359607&v=2&c=15068&nc=1&sc=).

La biomassa algale con microelementi permanentemente legati ha molte applicazioni industriali (mangimi, fertilizzanti naturali, ecc.).

In merito la dott.ssa Malavasi, sottolinea: “È importante evidenziare le proprietà uniche delle microalghe estremofile, il loro elevato potenziale per le applicazioni biotecnologiche e la loro notevole capacità di resistere a condizioni ambientali difficili. Lo studio degli estremofili e dei loro ambienti è senza dubbio molto promettente.

Altro elemento che si inserisce in un ipotetico ramo economico produttivo, potrebbero essere le terre rare, di cui oggi tanto si parla, che le acque sotterranee della miniera di Montevecchio a contatto con le mineralizzazioni e le discariche delle lavorazioni delle laverie portano in soluzione all’esterno.

Laveria La Marmora

Nella scorsa estate il Ministro delle Imprese Adolfo Urso lanciava la riapertura delle miniere, cogliendo l’invito dell’Europa affinché i paesi membri raggiungano una maggior autonomia per l’approvvigionamento di quei materiali indispensabili per i settori strategici e per la transizione ecologica, meglio noti “Terre Rare”, per le quali dipendiamo quasi totalmente dalla Cina.

Le “Terre Rare” come il lantanio (La), cerio (Ce), praseodimio (Pr), neodimio (Nd), per fare qualche esempio, sono ormai indispensabili per le proprietà magnetiche e conduttive nell’industria elettronica, militare, nelle batterie delle auto, nelle fibre ottiche, laser e per la produzione di pannelli fotovoltaici. Questa notizia ha fatto balenare l’idea, e per alcuni la speranza, di una nuova era mineraria, non esenti da nuove ferite ambientali e da un’altra ondata del peggiore inquinamento. Forse, come accennato, se assecondassimo il lavoro della natura potremmo recuperare altrettante “Terre Rare”, certo non in quantità industriali, ma quel poco verrebbe ottenuto con un importante processo di economia circolare, che fa bene all’ambiente.

La relazione ci restituisce la tabella delle “Terre Rare”:

Forse c’è sicuramente bisogno di un altro tipo di impianto, che non sia la ripetizione del tentativo fallimentare di Casargiu, oggi integrato fra i ruderi della galleria Fais.

Se lo studio di cui sopra ha rilevato interessanti approcci, diremmo green, non ultimo la riduzione biologica del processo attraverso il siero del latte, elemento di scarto dei caseifici, in sostituzione di un più oneroso componente chimico, ci sarebbero tutti gli elementi, facendo tesoro di quanto fatto sinora, di una nuova realizzazione. Ad oltre dieci anni dal suddetto studio, con le novità enunciate, realizzare un semplice depuratore di acque da miniera sembrerebbe inopportuno. Mentre un impianto centralizzato che assumesse anche funzioni di Centro ricerche e innovazione, renderebbe merito ai minatori di Pozzo Amsicora, che il 18 maggio 1991 mettevano fine all’occupazione ed alla definitiva cessazione dell’attività estrattiva. A suggello della irripetibile storia mineraria venne sottoscritto un accordo sindacale presso il Ministero dell’Industria, e in un significativo passo si faceva riferimento al varo del “Progetto Ingurtosu”, con un concreto impegno: “A tale riguardo la Ras dichiara già da oggi la propria disponibilità all’acquisizione di una quota di partecipazione all’iniziativa del 30%. Tramite il CSR4 (Parco Tecnologico)”. Per questa interessante prospettiva venne poi scelta un’altra “fredda” località rispetto alla storica miniera di Ingurtosu, dove, in quel momento, erano ancora presenti impianti e strutture in buono stato da riconvertire per ospitare degnamente il più vasto Parco Tecnologico d’Italia.

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