Guspini nel Medioevo: una narrativa storica_di Tarcisio Agus
La storia medievale della Sardegna si caratterizza con la nascita dei quattro giudicati nel IX secolo e si chiude nel XV secolo.
Guspini era parte integrante del Giudicato d’Arborea fin dalla sua nascita, che gli studiosi attestano sorto intorno al 900 come germinazione del regno di Torres.
In quel periodo i confini del regno di Arborea si estendevano a nord su Cuglieri e la barbagia di Ollolai, ad oriente era il Mandrolisai e la Barbagia di Belvì, mentre a sud l’area di Fluminimaggiore.
L’abitato ed il territorio di Guspini faceva parte della curatoria di Bonorzuli, una delle province del giudicato, retta da un curatore scelto fra i membri della famiglia giudicale o da un rappresentante dei maggiorali (ricchi ed influenti proprietari terrieri).
Un periodo di difficile ricostruzione storica per molti comuni dell’isola, dovuto alla carenza documentale e l’abitato di Guspini non è da meno. Proviamo comunque a ricucire la storia medioevale guspinese poggiandoci su alcuni avvenimenti certi e documentati, che in qualche maniera lo hanno sicuramente coinvolto.
La villa di Guspini, come nel resto del regno, era affidata a un majore nominato dal curatore con incarichi fiscali, giudiziari e di sicurezza. Probabilmente l’abitato viveva pienamente il periodo giudicale immerso nelle sue attività consolidate, come quella agricola, data dalle vasti estensioni della pianura con una parte di latifondi ancora in vita, che andavano scemando in favore di nuove proprietà necessarie al Giudicato, da cui traeva le principali risorse economiche. Molti dei nuovi proprietari terrieri erano dediti all’allevamento dei bovini, caprini, ovini e suini allo stato brado, dalle mandrie e dalle greggi traevano la produzione delle carni, il latte, la lana, le pelli ed i formaggi. Non mancava l’allevamento equino, necessario ai cavalieri ed ai ricchi proprietari per il controllo territoriale. Al mondo agricolo si accostava un tessuto di attività artigianali con i caseifici familiari, le beccherie (macellerie) e le concerie, presenti queste ultime a Guspini ancora agli inizi del 1900. L’esigenza edilizia era supportata da importanti cave di argille e di carbonato di calcio, che diedero origine alle prime “industrie”.
Le fornaci per le argille operavano fuori dall’abitato presso i più importanti depositi geologici, ricalcando precedenti fornaci romane. Almeno due hanno funzionato sino agli inizi del 1900 e delle quali ancora oggi restano le tracce presso le regioni di Terra Frissa e Murte Canna (Sessini e Gilardi). Gli edifici dove si lavorava il carbonato di calce erano a bocca di cava ed in periferia dell’abitato, anticamente, già dal periodo romano, si sfruttava il vasto filone emergente che dal colle del duomo di San Nicolò (in via San Nicolò era una delle più importanti cave), proseguiva in via Rossini, area nota come “Su bijâu de is pedas biancas” (il rione delle pietre bianche), sino a “Su bijâu de cuccurèba o cuccurìba” (colle dell’abitato) ed in vico Marconi, sono ancora le tracce dell’ultima fornace Bianco, che ha operato sino agli inizi del 1900).
La ricchezza delle materie prime minerarie ed edilizie aveva favorito lo sviluppo e la realizzazione di strumenti da trasporto, in particolare dei carri a buoi. Il leccio, materiale prediletto per la realizzazione dei carri e strumenti da lavoro (pale, forconi, sassole, telai, panche, sedie ecc.) abbondava nei boschi di Monte Maiore, Nurecci, Gentilis e Laus de Biasi. Dai robusti e resistenti tronchi si traevano le parti più importanti per la realizzazioni dei veicoli da trasporto e le attrezzature di lavoro, mentre dalle fronde si raccoglievano le ghiande, utilizzate nell’alimentazione dei porci e nella concia delle pelli per l’elevato contenuto di tannino.
Tutte attività che rientravano pienamente nelle risorse economiche della Sardegna giudicale, compreso un residuo locale di estrazione mineraria per il recupero dell’argento, venuto meno con la caduta dell’impero romano nel 476 d.C., ma gradualmente ripresosi in fase medioevale perché considerato importante metallo di scambio, nonché materia prima per la coniazione monetaria. A tal fine erano certamente presenti un certo numero di fabbri ferrai e maniscalchi, abili nella produzione degli strumenti da lavoro, ma sicuramente lo erano anche nella coppellazione (processo di raffinazione metallurgica) per l’estrazione dell’argento dalla galena.
L’attività metallurgica, nonostante l’orientamento giudicale fosse rivolto principalmente all’economia agricola e pastorale, era evidentemente ben nota al Giudice d’Arborea Comita III de Lacon-Serra, che nel 1131 sfruttò l’unica ricchezza estrattiva giudicale presente nel territorio arburese-guspinese per i suoi accordi politici con la città di Genova. Per soddisfare le sue mire espansionistiche nel Logudoro chiese sostegno ed aiuto militare alla città di Genova, in cambio cedeva la metà delle miniere d’argento del proprio regno (“medietatem montium in quibus invenitur vena argenti in toto regno meo”).
Le miniere d’argento del regno d’Arborea erano quelle comprese tra Montevecchio e Fluminimaggiore e quelle più vicine al capoluogo del Regno erano certamente quelle di Arbus e Guspini.
Nel 1146 moriva Comita III e subentrava il figlio Barisone I, che nel 1157 sposava Agalbursa de Cervera, di origine catalana, fra i doni di nozze la neo regina ricevette anche la “corte” di Oiratili (Urralidi), regione a nord dell’abitato di Guspini.
Anche Barisone I, come il padre, si affidò a Genova, non per nuove espansioni territoriali, ma per ottenere dall’imperatore Federico Barbarossa l’investitura a “Re di Sardegna”. L’intermediazione genovese consentì a Barisone I d’essere incoronato “Rex Sardiniae” il 10 agosto del 1164 nella chiesa di San Siro a Pavia. Il 16 settembre dello stesso anno concedeva ai genovesi, per l’intercessione, oltre un censo annuo, i castelli di Arcuentu e della Marmilla, nonché il diritto di commercio su tutto il giudicato e l’uso del porto di Oristano.
Della presenza genovese a Guspini per il momento non ne abbiamo traccia, ma presumibilmente i genovesi frequentarono l’abitato a seguito dell’accordo del 1131 e della successiva cessione alla città ligure del castello di Arcuentu.
L’ importante fortificazione è stata sino al 1800 giurisdizione di Guspini, come riportato dal Prof. Cesare Casula, per cui non è da escludersi che la villa abbia contribuito con proprie maestranza alla sua edificazione e presidio, nonché supportato il console genovese Ingone Tornello quando tornò in Sardegna nel 1169, per rifornirlo.
Nonostante le importanti cessioni Barisone I non riuscì ad onorare il debito, per cui venne tenuto in ostaggio nella città ligure.
A reggere il giudicato venne chiamata la regina consorte Agalbursa nel periodo compreso tra il 1165 e il 1172, anno della liberazione e del rientro in Sardegna del coniuge Barisone I.
Il suo riscatto costò al Giudicato circa 672 kg di argento, presumibilmente quella montagna di prezioso metallo venne tratto dalle nostre miniere attraverso l’azione della regina consorte Agalbursa, che frequentava il territorio guspinese per il tramite della sua proprietà personale e della miniera (nonostante la concessione ai genovesi, buona parte restava pur sempre di proprietà giudicale).
Il possesso di Urralidi da parte della corte di Arborea, delle miniere e della regione Struvonica avvicinava i reggenti all’abitato di Guspini. In Struvoniga, località contigua ai filoni minerari di Piccalinna, i giudici d’Arborea probabilmente vi esercitavano la caccia.
Il glottologo dell’Università di Cagliari Prof. Giulio Paulis definisce il toponimo costituito da “Struv(a)” (terreno con cespugli) e “(D)oniga” (appartenente al giudice), riserva di caccia del giudice, sicuramente al cervo, ancora oggi presente. Durante le battute di caccia tutti gli abitanti del circondario erano tenuti a partecipare e Guspini ne era pienamente coinvolta. Non è da escludersi inoltre che proprio durante il regno di Agalbursa, che proseguiva la politica del marito Barisone I, in particolare quella di dotare le domus e le ville di chiese, fosse stata eretta la chiesa di Sant’Alessandro. La sua intitolazione dal greco Aléxandros, (dal verbo aléxein “difendere” ed il sostantivo andròs “uomo”) “difensore dei propri uomini o sudditi”, potrebbe non essere stato scelto a caso visto la sua ubicazione entro l’antico abitato. Probabile operazione che nasceva sicuramente in ossequio alle indicazioni del pontefice Gregorio VII, che avviò l’opera di sostituzione del monachesimo orientale per ricondurre l’isola sotto il rito latino del cattolicesimo romano. A Guspini era presente, fuori dall’abitato, il cenobio bizantino di Santa Maria Assunta.
Attualmente, perché andata distrutta, possiamo rilevare la posizione della chiesa di Sant’Alessandro e la sua dimensione attraverso la mappa del catasto vecchio XXI/A (1864). Era di forma rettangolare con facciata ad occidente, come Santa Maria, ma più piccola e senza abside, con un cortile di pertinenza e probabile ingresso secondario dallo stesso.
L’abitato si era sviluppato a cavallo delle due principali arterie quasi parallele tra “Sa ia de Sa mena” (la via della miniera), l’attuale via Montevecchio e via Giovanni Antonio Sanna già via San Giuseppe, con una propaggine ad arco, al disopra degli antichi lavori minerari e di cava, lungo la via La Pace, Giardini, Pio Piras e via Manno, avvenuta gradualmente con l’insediamento monastico bizantino prima e benedettino poi, nonché con lo spopolamento di Neapolis, sino a congiungersi con la chiesetta della Vergine Assunta.
L’antico abitato era protetto a valle dal corso del rio Mengas, ora tombato nella via Dante e via Carducci, che nella parte centrale prese il nome di rio Concias per la presenza delle importanti concerie.
Esterno all’abitato, come detto, era il cenobio dei monaci bizantini con la piccola chiesa di Santa Maria Assunta, ancora nella forma primordiale presumibilmente cruciforme cupolata, con ingresso ad occidente.
Altro luogo di culto era la chiesa di Santa Barbara, anch’essa isolata dall’abitato, nata presumibilmente in fase paleocristiana su il promontorio calcareo (oggi sede del duomo di San Nicolò), con la riconversione di un preesistente tempio pagano in Antis (semplice struttura rettangolare con sul fronte il pronao prima dell’ingresso al tempio). L’intitolazione a Santa Barbara, protettrice dei condannati ad Metalla, era legata alla attività estrattiva e fabbrile della fase romana, mantenutasi sino all’arrivo dei catalano aragonesi. Il tempio era posizionato al centro del colle, in posizione elevata, con il prospetto a levante come tutti i templi romani e l’accesso, sempre a levante, avveniva attraverso una scalinata che si staccava dall’antica strada romana “Tibula Sulcis” oggi via Parrocchia. Le tracce del tempio sono ancora presenti sotto il pavimento della seconda cappella a destra nel duomo di San Nicolò dedicata all’Immacolata, mentre della scala ne troviamo ancora traccia nella progettazione della strada statale 126 del 1866, che tagliò parte del bastione della chiesa eliminando l’antica testimonianza.
In quel periodo la presenza genovese, come avvenne nel resto dell’isola, in parte affidata anche ai pisani, modificò l’economia chiusa, fatta di scambi locali imperniati ancora sul baratto, in economia aperta, per cui i prodotti della terra, dell’allevamento e minerario entrarono nei mercati commerciali delle due repubbliche marinare. Genova, autorizzata a commerciare nel giudicato, sicuramente sfruttò anche il porto di Neapolis, nonostante l’antica città fosse spopolata o in fase di spopolamento a causa delle invasioni arabe. In particolare si ricorda quella del 1015, che vide lo sbarco di un centinaio di navi arabe sulle coste occidentali provenienti dalle Baleari al comando di Mugiahid (Mjaid Al-Amiri), meglio noto Museto, con un nuovo tentativo per completare l’opera l’anno successivo. Venne però intercettato e sconfitto da una coalizione delle repubbliche marinare di Genova e Pisa, chiamate in aiuto dai sardi. L’intervento di Genova e Pisa era dato fondamentalmente da un loro primordiale interessate, con l’istituzione dell’economia aperta si era indebolito il potere dei giudici, mentre aumentava quello delle due potenze marinare, sempre più coinvolte nello sfruttamento delle risorse dell’isola.
Dopo la morte di Barisone I, nel 1184, si aprì un conflitto istituzionale per la reggenza del giudicato tra il figlio del primo letto Pietro I e Ugone I, nipote dalla regina vedova Agalbursa, sostenuto dai catalani venuti al suo seguito.
Per mantenere il trono Pietro I si alleò con i Pisani, mentre Ugone I, attraverso la zia Agalbursa ed il re di Aragona manteneva legami con i genovesi.
Con la morte di Agalbursa, nel 1186, si rafforzava il potere di Pietro I, Ugone I era ancora minorenne e sotto tutela di Raimondo de Torrigia, sembrerebbe proprio in questo periodo che il castello d’Arcuentu e le miniere rientrarono nel pieno possesso del Regno di Arborea. Questa nuova alleanza con i pisani portò anche all’insediamento monastico dei vallombrosani sulla cima dell’Arcuentu, con l’eremo dedicato a San Michele del monte Erculentu, che alcuni studiosi attestano al 1188. Presumibilmente il castello, o meglio l’insediamento militare, aveva perso, per la sua posizione isolata a quota 785 s.l.m, la sua funzione per le indubbie difficoltà operative e con l’insediamento monastico presumibilmente manteneva un importante punto di vedetta.
La disputa fra i due pretendenti al trono ebbe termine nel 1192 con una sorta di condominio. Seguirono alterne e complesse vicende e Pietro I, nel 1196, venne sconfitto dal giudice di Cagliari Guglielmo di Massa, che invase il giudicato di Arborea, ritenendo il potere di Pietro I illegittimo. Il giudice d’Arborea venne fatto prigioniero con il figlio Barisone II. (segue)
In copertina: Fornace Sessini